La nuova edizione di Amore, com'è ferito il secolo. Poesie e lettere alla moglie, di Giorgio Caproni, a cura di Stefano Verdini (Manni, pp. 128, euro 13), ha una postfazione in cui Vincenzo Ostuni osserva che fra i poeti nati negli anni Dieci del Novecento - Sereni (1913), Luzi (1914), Fortini (1917), Bertolucci (1911) - la fama e il magistero di Giorgio Caproni (1912) non hanno fatto che crescere e consolidarsi, «considerando il pressoché unanime disinteresse per l'opera di Salvatore Quasimodo» (su quest'ultimo punto inserirei un "purtroppo"). E aggiunge: «A un quarto di secolo dalla scomparsa Caproni è forse il classico più universalmente amato del secondo Novecento italiano, non solo poetico». Molto ben detto e, per quel che mi riguarda, da sempre ho letto, conosciuto e intervistato Caproni con l'ammirata devozione che il poeta meritava. Vedere riunite le poesie dedicate alla moglie (Rosa Rettagliata, familiarmente e poeticamente Rina), allarga il cuore: un sodalizio affettuoso di oltre cinquant'anni, dal matrimonio avvenuto nel 1938 fino alla morte di lui, nel 1990 (Rina lo seguirà tre anni dopo). Ma, in Caproni, memorie e sentimenti non sono mai semplici e, soprattutto nelle poesie più antiche, si mescola a Rina il ricordo della prima fidanzata del poeta, Olga Franzoni, morta drammaticamente di setticemia nel 1936. L'anno dopo Caproni conoscerà Rina, e nel 1938 la sposerà. Il retrogusto amaro della lirica caproniana viene un po' anche da Olga. Alcune poesie alla moglie sono fra le migliori, come "Alba", fra le più antologizzate, con il celebre incipit: «Amore mio, nei vapori d'un bar / all'alba, amore mio che inverno / lungo e che brivido attenderti!». Ma in questa sede non c'è spazio per un'analisi critica. Nelle lettere a Rina, soprattutto quelle del poeta soldato e poi dell'immediato dopoguerra, colpiscono le difficoltà economiche: Caproni, com'è noto, mantenne la famiglia col suo modesto stipendio di maestro elementare, arrotondando con le traduzioni, le collaborazioni giornalistiche e apprezzando i premi letterari in denaro, che nei suoi ultimi anni consolidarono il suo prestigio: nel 1982 il Premio Feltrinelli e il Premio Librex-Montale alla carriera. E c'è un aspetto solitamente sottaciuto che traspare dalle lettere a Rina: la religiosità del poeta. Il 3 agosto 1940, il fante Caproni Giorgio scrive: «Carissima Rinuccia, ieri sera, 1 agosto, mi sono confessato da fra Ginepro e stamani 2 agosto, primo venerdì del mese, ho fatto la comunione. Sono certo che questa notizia ti farà tanto tanto piacere. Ma anche tu devi fare altrettanto. Me lo prometti? Potresti scegliere il 30 agosto, che è Santa Rosa, giorno cioè del tuo onomastico, per il quale fin da ora ti faccio i miei auguri, sinceri e profondi come possono esserlo soltanto quelli di un marito che ti adora». Il 29 aprile 1941 Caproni scriveva: «Non addolorarti, Rinuccia mia. Verrà pure il tempo in cui avremo la grazia di ritrovarci riuniti per sempre. Basta avere fiducia in Dio e pregare, lo fai? Ne ho bisogno, Rinuccia. Io prego ogni sera per te». E il 16 maggio, alludendo alla figlioletta Silvana, di due anni: «Dille che stia buona, che io, qui, quando vado in libera uscita, visito ogni tanto la Chiesa per dire una preghiera per lei e per mammina». Dunque il ventinovenne Caproni era un cattolico praticante con buona formazione religiosa (il primo venerdì del mese!), e si rafforza il sospetto che quel lambiccare sulla presenza/assenza di Dio che caratterizza gli ultimi libri del poeta e gli hanno dato celebrità, sia un genere letterario più che esistenziale, dato che le risposte alle sue domande "metafisiche" probabilmente le aveva dentro di sé, nonostante la cenere depositata dagli anni e dalle vicissitudini. Comunque, è giusto attenersi alla letteratura, anche se fa piacere sentire Caproni umanamente meno assillato da dubbi di fede. La nuova edizione contiene anche brani di diario inediti, e basta una frase per ritrovare il Caproni maggiore: «Sono mesi, forse anni che non ricevo più mie notizie».
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