Peccato che Sarri non legga i giornali. Non dico per me ma almeno questo nobile foglio spero lo frequenti, magari per altri contenuti. E mi auguro che si sia comunque accorto dell’assist che gli ho fatto da tempo: da quando ha sospeso il Progetto e ha badato allo Scudetto. Sostanza, non sogni – si dice a Casa Juve –
anche se ogni tanto qualcuno dirazza e comincia a dare ascolto a mille tifosi e a quattro inesperti opinionisti che invocano Bel Giuoco ignorando l’avvertenza dell’antico proverbio: il Bel Giuoco dura poco. Perché ad ispirarlo intervengono più elementi, compresa la casualità; perché la ripetizione insistita diventa noia, come il Tikitaka che ha contagiato buona parte della critica velleitaria e afflitto i competenti. Conscio di poter contare su Ronaldo, Dybala, Bentancur, Cuadrado, Douglas Costa, Bonucci e lo spavaldo intelligente Rabiot, Sarri ha badato al sodo, sapendo anche di avere limiti di stanchezza, fisica e mentale. Cosa vai a dirgli a ragazzi che già a marzo avevano vinto lo scudetto battendo proprio l’Inter, unica antagonista riconosciuta? È già stato bravo a tenerli insieme, durante il penoso lockdown, anche quando scalpitavano perché lo vedevano dubbioso e improvvisamente perduto in rimpianti senza storia: «Napoli c’est fini», cantava
l’amico Fred, e spero che il sor Maurizio ne abbia preso nota con
questo scudetto che solo la Juve poteva dargli, sollevandolo dall’anonimato radical chic e attribuendogli un busto al Valentino, accanto a Trapattoni, Lippi, Conte e Allegri, noti elaboratori di trame semplici e schiette nelle quali coinvolgere pedatori illustri e meschini con una sola istanza aziendale: vincere. Le idee, i progetti e gli ordini di Famiglia sono stati rispettati più in Juventus che in Fiat e in Ferrari. Vogliamo dire qualcosa delle signore di Maranello e della Continassa? Mi viene spontaneo chiedermelo avendo avuta concreta conoscenza della gestione Gianni Agnelli a Torino e Enzo Ferrari a Modena. Se ben ricordo, gli unici insuccessi del magico duo furono la Dino e la Thema Ferrari. Quando tentarono l’Ibrido Impossibile. Tornando a noi, mi verrebbe voglia, trasformandomi da incendiario a pompiere, di invitare gli “estetisti” del pallone e i sempiterni “ingegneri del lunedi’” dell’auto (così ribattezzati dal Drake) a ritirarsi dalle cattedre in cui si danno inutili lezioni di Bel Giuoco o promettono per conto di Carletto Leclerc successi che gli hanno subito dato alla testa. La Juve è quell’azienda dove hanno osato sottoporre a ripetuti esami Paulo Dybala prima di regalarsi la Joya che forniva pause di dolcezza anche agli amarissimi esteti che hanno bocciato Allegri rimpiangendo una Signora mai esistita. Una Juve che ha rischiato di perdere il nono scudetto per improvvise levate di mente sarriane come se il Monviso fosse il Vesuvio. È peraltro doveroso aggiungere che il maggior merito di Sarri e dei suoi ragazzi è stato ignorare la fragilità degli avversari – tutti – che hanno regalato alla Juve lo scudetto del ciapanò. Han tenuto in conto più le imprese che i crolli di Inter, Atalanta, Lazio e aspiranti vari, lavorando con impegno in umiltà. Non sono un seguace del Maestro Sacchi – al quale preferisco il Maestro Muti – ma credetemi, più che teorie velleitarie Arrigo ha trasmesso all’amico Sarri l’umiltà operativa, spesso obnubilata da arroganza difensiva. A proposito di Sacchi, ho ritrovato un suo ricordo juventino che s’attaglia
perfettamente a quest’ultima impresa: «La volontà, il dare tutto, la generosità e la serietà della Juve dovrebbero essere un esempio per tutti i club. La cultura della vittoria fa parte da sempre del Dna dei bianconeri: si trasmette ai giocatori facendone dei protagonisti. La storia di questo club, a parte qualche piccola pausa, è sempre stata caratterizzata da una sete di
vittorie senza pari. Forse non sempre la Juventus ha convinto, forse non sempre è stata bellissima, ma sicuramente è sempre stato un avversario con una determinazione feroce, uno straordinario orgoglio e un grande senso pratico».
Parola sua. E mia. E la Champions?Al prossimo numero.
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