C'è un effetto collaterale della pandemia che nessuno, almeno in Occidente, poteva prevedere. Dopo aver generato il virus e averlo vinto al prezzo di limitazioni della libertà inimmaginabili negli Stati Uniti e in Europa, la Cina è l'unica tra le principali economie del mondo che chiuderà il 2020 con Pil in crescita (di quasi il 2%). E che sfrutterà questa partenza per raggiungere a fine 2021, secondo le previsioni del Fmi, uno sviluppo superiore all'8%. Il confronto con gli Stati Uniti è terribilmente impari: per la prima economia del pianeta, ancora investita in pieno dal vortice pandemico, sono previsti una caduta del Pil del 4,6% nel 2020 ed un rimbalzo del 3,1% nel 2021. In due anni, dunque, la Cina recupererà nei confronti degli Usa più di 11 punti di Pil: a questo ritmo la sua cavalcata verso la leadership globale realizzerà il grande sogno della nomenklatura di Pechino prima del 2030, l'anno "pianificato" per il sorpasso. In Italia (come in molti Paesi europei) la corsa cinese – in fondo – viene vissuta senza patemi, anzi come opportunità di crescita per il sistema imprenditoriale: il modesto sviluppo del Pil italiano negli ultimi anni è stato sostenuto in gran parte dalla crescita dell'export, determinato a sua volta soprattutto dal boom delle importazioni cinesi che è stato sfruttato efficacemente dalle imprese italiane in molti settori, dalla meccanica strumentale ai mezzi di trasporto, dalla chimica alla moda. Nell'ultimo decennio, il valore dei prodotti made in Italy esportati verso Pechino è più che raddoppiato: dai 6,3 miliardi di euro del 2007 ai 13,5 miliardi dello scorso anno. Ma alle nostre latitudini, a causa del provincialismo imperante, non si tiene conto di una novità strategica di grande rilievo. Il piano quinquennale 2021-2025 approvato dal quinto Plenum del Partito Comunista cinese individua una priorità fondamentale: abbattere la dipendenza dall'estero, attraverso il progressivo sviluppo di una supply chain domestica che copra tutti gli stadi delle filiere produttive, in particolare nei settori tecnologici. In coerenza con questo obiettivo, il piano cinese moltiplica gli investimenti in formazione e ricerca scientifica portandoli al 3% del Pil entro cinque anni. La nuova strategia "autarchica" di Pechino, dunque, rischia (a medio termine) di distruggere il meccanismo di traino dell'export occidentale che abbiamo conosciuto negli ultimi 15 anni. Da ciò la necessità di un riposizionamento globale delle produzioni italiane: questione che ci accomuna a Germania e Francia, alla quale è facile prevedere che si reagirà a Berlino e a Parigi con una strategia-Paese che aiuti grandi imprese, medie imprese e filiere a conquistare nuovi mercati più favorevoli. Succederà qualcosa anche a Roma?
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