I porti sono stazioni di partenza, di transito, di arrivo. Sono bordi del mondo, nuovi confini liquidi, fatti di quell'acqua salata che, secondo Karen Blixen, è la cura per ogni male. Acqua salata che non è solo quella del mare, ma anche delle lacrime e del sudore che si trovano a volontà, proprio lì, dove si lavora e dove, di gioia o di dolore, si piange. Quando eravamo noi a partire dai porti (sì proprio noi, pezzi del nostro Dna, della nostra carne, della nostra cultura) quelli che rimanevano sulla banchina a salutare, consapevoli di un saluto spesso definitivo, usavano dare in mano a chi partiva il capo di un gomitolo di lana. Loro, giù a terra, tenevano stretto quel gomitolo che alla partenza del piroscafo si srotolava, fino a spezzarsi. Quel filo strappato restava, per un attimo, a volare sostenuto dalla brezza marina. Poi, a un certo punto, cadeva in acqua, senza rumore. L'aggettivo straziante non è sufficiente per descrive la scena, ma non ne conosco di più efficaci.
Quando si arrivava sulle banchine dei porti c'erano facce e lingue sconosciute oltre a militari che certificavano con dei test umilianti lo stato di salute, fisica e mentale, di chi da quelle barche scendeva. Una specie di mercato della dignità, dei sogni, del futuro: un prezzo alto da pagare per farsi aprire la porta di un presunto paradiso che se poi non c'era, di sicuro non lo si raccontava. Era meglio mandare qualche finta fotografia o scrivere lettere dove si descriveva una realtà molto lontana dalla verità.
Nei porti c'era, allora come oggi, energia che deve trasformarsi e può diventare rabbia, violenza, oppure gioia, bellezza, slancio creativo. Nei porti i sentimenti umani vengono maggiormente messi alla prova e, dunque, si esprimono attraverso i linguaggi più emozionanti e universali: la musica, l'arte e lo sport. Gli umani che arrivano o che vivono lì si esprimono attraverso gesti fondamentali, basici, verrebbe da dire essenziali: scrivono note struggenti, danzano oppure giocano a calcio.
A Buenos Aires, quartiere portuale La Boca, nascono il Tango, le note di Carlos Gardel, il Boca Juniors e il River Plate. A Montevideo il Peñarol (si chiama così in onore di Pinerolo, provincia di Torino, perché fondato da piemontesi) e il Candombe una musica di origine africana che cantavano gli schiavi che sbarcavano nel porto uruguagio. Al Pireo, il porto di Atene, nascono il Rebetiko e l'Olympiakos, a Lisbona il Fado, lo Sporting e il Benfica. Intorno al porto di Rotterdam nascono lo Sparta e il Feyenoord, ma si formarono anche l'umanesimo e la teologia di Erasmo (da Rotterdam, appunto). Nel quartiere portuale di Amburgo, nel 1910, viene fondato il St. Pauli, squadra dalla storia leggendaria, ma vennero alla luce anche Johannes Brahms e Felix Mendelssohn. A Danzica giocano i biancoverdi del Lechia, ospitati in uno degli stadi più belli d'Europa, color dell'ambra di cui la città polacca è capitale, ed è nel porto di quella città che nacque Solidarnosc, il sindacato che ha cambiato l'Europa e il mondo. Il Genoa Cricket and Football club, la più antica squadra di calcio italiana ancora in attività, viene fondata da un medico e filantropo inglese che sbarca nel porto di Genova rivitalizzato dall'apertura del Canale di Suez, ma lo sappiamo bene, nasce anche una canzone d'autore dialettale che culminerà con l'opera di uno dei più grandi cantautori italiani, Fabrizio De André. E se volessimo parlare di calcio, musica e cultura di due città portuali italiane come Napoli e Trieste? Insomma, potrei andare avanti per altre tre pagine, ma se c'è una lezione che la storia avrebbe dovuto insegnarci è quella che tutti i sistemi (biologici, politici, economici, culturali, sportivi) che si chiudono sono destinati a morire. I porti sistemi per natura aperti, si fondano, nutrono, prosperano e migliorano il mondo grazie a un meraviglioso e fecondo sostantivo femminile: la contaminazione.
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