Vi esorto, o preti, a un poco di commozione quando predicate!
Pensiamo a quante prediche verranno pronunciate in questa domenica in tutto il mondo. Valanghe di parole sulle quali da sempre si sono appuntate critiche, ironie, giudizi di merito e di metodo. Parole che, però, non di rado consolano e inquietano, riescono a incidere nella storia personale di molti. Contro lo stereotipo che vuole i sermoni un "tormento" di noia per i fedeli, c'è la verità secondo la quale molti bravi e convinti predicatori sanno introdurre un sano "tormento" in coscienze assonnate e intorpidite. Ma nel consiglio che ho proposto oggi ai preti (e che vedremo vale per tutti), quello straordinario sacerdote e intellettuale lucano-romano che è stato don Giuseppe De Luca (1898-1962) lascia cadere un elemento piuttosto delicato, la commozione.
Si tratta di una spezia da maneggiare con cautela perché, come tutti i sentimenti, se in eccesso, genera sdolcinature insopportabili, eccessi enfatici, retorica emotiva. Eppure, non solo nelle prediche ma anche nelle relazioni umane, non si deve amputare la partecipazione appassionata; non ci si deve vergognare se il cuore accelera i battiti e se talora affiorano le lacrime sulle ciglia. Non si vive solo di comunicazioni asettiche come quelle degli aeroporti o delle stazioni ferroviarie. Nell'esistenza ci sono momenti che turbano e sconvolgono e non si deve, per falsa virtù o eroismo, rimanere di bronzo. Si provano esperienze che generano pianto e dolore ed è giusto invocare aiuto e conforto. Ci sono verità (non solo di fede) che suppongono un'adesione fremente e non un assenso freddo come a un teorema geometrico. Commuoversi non è segno di debolezza ma di umanità.
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