Capita spesso che ci si chieda: "Ma in che epoca vive la Chiesa?". Succede quando, per esempio, ci troviamo di fronte a orpelli di un'epoca che credevamo in soffitta, a modi di pensare e anche di agire distonici rispetto non a un generico "mondo esterno", ma al comandamento evangelico dell'amore. Capita, e purtroppo come detto non è un evento raro. Diventato quasi palpabile nell'ultimo secolo e mezzo ossia da quando, lasciatosi alle spalle le pastoie del potere temporale, il papato è andato via via dispiegandosi con sempre più evidenza come profezia, rispetto a una Chiesa-istituzione spesso incapace (o, per diverse ragioni, non desiderosa) di tenerne il passo.
Qualche esempio recente? Ci sarebbe solo da scegliere, e ancora una volta verrebbe da dire "purtroppo". Le resistenze che Giovanni Paolo II dovette affrontare rispetto agli incontri delle religioni per la pace, o davanti alla sua decisione di far coincidere il Giubileo del 2000 con la richiesta pubblica di perdono per le colpe della Chiesa cattolica, gli uni e l'altra osteggiati e perfino boicottati da settori della Chiesa stessa. Così come i muri di omertà che Benedetto XVI ha visto ergersi attorno a sé nella sua decisa azione per contrastare lo scandalo degli abusi sui minori. O le vere barricate alzate attorno all'Amoris laetitia di Francesco, eccetera eccetera. Resistenze, impuntature di settori minoritari, e sempre più piccoli, ma capaci di zavorrare la barca di Pietro.
Il rischio? Francesco l'ha indicato chiaramente qualche giorno fa, nel tradizionale discorso prenatalizio alla Curia romana: oggi «siamo in uno di quei momenti nei quali i cambiamenti non sono più lineari, bensì epocali; costituiscono delle scelte che trasformano velocemente il modo di vivere, di relazionarsi, di comunicare ed elaborare il pensiero, di rapportarsi tra le generazioni umane e di comprendere e di vivere la fede e la scienza». E sì, succede molte volte «di vivere il cambiamento limitandosi a indossare un nuovo vestito, e poi rimanere in realtà come si era prima», ma l'atteggiamento «sano è piuttosto quello di lasciarsi interrogare dalle sfide del tempo presente e di coglierle con discernimento».
Parlava, nello specifico, della riforma della Curia, il cui obiettivo è che «le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato all'evangelizzazione del mondo attuale, più che per l'autopreservazione. La riforma delle strutture, che esige la conversione pastorale, si può intendere solo in questo senso: fare in modo che esse diventino tutte più missionarie». O ci si muove in questo spirito, avendo presente che cosa ci sia davvero in gioco, oppure si perde il treno. E perdere il treno perché ci si è arroccati nella propria consuetudine, nei propri privilegi, nelle proprie illusioni di potere significa rinunciare a quello che è la ragione dell'esistenza della Chiesa, istituita per evangelizzare e non certo per autoperpetuarsi. Altrimenti è la fine, ha detto Bergoglio citando l'ultima intervista del cardinale Martini, che «a pochi giorni della sua morte, disse parole che devono farci interrogare: "La Chiesa è rimasta indietro di duecento anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio? Comunque la fede è il fondamento della Chiesa. La fede, la fiducia, il coraggio. Solo l'amore vince la stanchezza"». Un coraggio richiesto non solo per la riforma della Curia, ma per ogni passo che la Chiesa è chiamata a compiere nella storia. Perché non c'è più tempo per restare indietro.
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