Sapevo di averla ancora, in fondo al sacchetto fatto di rete. L'ho cercata quando ho visto tre ragazzini sotto l'ombrellone che si accanivano su un giochino elettronico sepolto dentro il cellulare. Loro, purtroppo, non sapranno mai cos'è una biglia di plastica con dentro la faccia di Gimondi. Era forse l'estate del 1972, le spiagge erano lunghe, e c'erano ancora pensioni che si chiamavano Iris. Per la prima volta, i grandi fecero giocare anche me: solo grazie al mio sedere però, che si era offerto volontario per tracciare la pista, paraboliche comprese, mentre mi tiravano in due per le gambe. È incredibile come nella vita ci si possa sentire protagonisti anche in situazioni imbarazzanti, ma ricordo che mi sentii importante. Scelsi la pallina per ultimo, naturalmente: volevo Merckx che in quei giorni vinceva, credo, il suo quarto Tour de France di fila. Mi diedero Gimondi, e me lo tenni. Non ero bravo, finivo sempre fuori in curva, tranne un pomeriggio quando ero abbastanza ultimo e provai un colpo folle. La pallina atterrò prima, oltre il traguardo. La mia carriera di giocatore sulla spiaggia finì lì, mi ritirai imbattuto e orgoglioso. Questo ho pensato ricordando che giusto un anno fa, domani, moriva Felice Gimondi. Un ciclista, un campione, un grande uomo. Ma per me, e gli chiedo scusa, è stato soprattutto una magnifica biglia colorata.
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