Dal 6 aprile 2013, per 152 giorni, abbiamo trepidato per la sorte di Domenico Quirico, inviato della Stampa di Torino, che, con il collega belga Pierre Piccinin da Prata, era stato rapito in Siria. Liberato l'8 settembre 2013, Quirico ha intitolato Il Paese del Male il libro scritto con il compagno di prigionia per raccontare istantaneamente quei cinque terribili mesi (Neri Pozza, pp. 176, euro 15).È un libro sconvolgente. Non solo per le torture che i due ostaggi hanno patito (peraltro descritte con sobrio pudore), ma perché indaga sull'abisso di male che si annida in uomini che si compiacciono di far soffrire altri uomini. Tradimento, menzogna, sofferenza. Sono le tre parole che riassumono quella devastante esperienza. Già, perché l'intenzione dei due giornalisti era di raccontare le gesta degli oppositori di Assad, dai quali avevano ottenuto salvacondotti per transitare dal Libano in Siria, ma che, varcato il confine, si rivelano per quello che sono, cioè sadici briganti intenzionati a mercanteggiare sulla pelle degli ostaggi.Incomincia un'odissea di 152 giorni di orrore, da una tana all'altra, con vessazioni che non hanno altro scopo che di umiliare le vittime. Se Domenico e Pierre chiedono acqua per bere o per lavarsi si sentono rispondere che non c'è acqua, che invece viene usata in abbondanza dai sequestratori che non trascurano neppure di irrigare le piante. E se un aguzzino mangia ciliegie, mette i noccioli nelle loro mani. Pura malvagità, se la malvagità può mai dirsi pura. Per due volte un bruto, appoggiando una pistola alla tempia di Domenico, simulerà l'esecuzione.Nessun gesto di pietà, mai. E, sempre, menzogne. Dapprima i ribelli si fingono poliziotti di Assad, poi promettono la liberazione fra cinque giorni, fra altri cinque, sempre più in là, per cinque mesi. E c'è anche Mahmud, giornalista di al-Jazeera, che si atteggia a capo e comincia a estrarre, da un sacco di plastica, rotoli di banconote americane da cento dollari: «Il sacco è pieno, sono centinaia di migliaia di dollari. Li conta a una velocità impressionante, facendoli scorrere come i bancari di un tempo, prima che inventassero le macchinette automatiche, tra le dita». Gioca a carte scoperte: «Siamo già entrati in contatto con i vostri governi, la trattativa è partita».L'orrore è che gli aguzzini interrompono le sevizie per mettersi a pregare. «L'Islam che io ho conosciuto», scrive Quirico, «è soltanto rito, gesti vuoti, un universo privo di compassione per l'altro, per chi soffre, soprattutto se è un infedele». Invece, scrive ancora, «il cristianesimo ha aperto le porte di una filosofia nuova e rivoluzionaria a tutti gli uomini, quella dell'universalità della compassione, dell'amore e dell'uguaglianza. L'immensa novità del cristianesimo consiste nell'aver proclamato che la via del più profondo mistero risiede nell'amore, un amore che non si limita al sentimento degli uomini, ma lo trascende come l'anima del mondo, più potente della morte e più potente della giustizia».La risorsa, in quel deserto di orrore, è la preghiera: «Preghiamo ogni sera, ogni ora, le mie povere preghiere di bimbo. Sdraiato sul mio giaciglio cedo a reminiscenze quasi misteriose, ritrovo sulle labbra le sillabe di nomi dimenticati: Ave Maria...».Pierre, che firma alcuni capitoli alternandosi a Domenico, nell'epilogo però confesserà: «Durante questi mesi ho imparato a non credere più in Dio e nel mio prossimo, a non sperare più, per non essere più deluso». Posizione comprensibile, che suscita affetto, e che gli auguriamo provvisoria. Del resto, molte pagine prima, Domenico Quirico, senza rimprovero, aveva implicitamente dato la risposta, definendo il cristianesimo retribuzionista di Pierre come «l'eterna tentazione di far patti con Dio, il dare e l'avere come in un negozio dove si vende o si svende la Grazia...». Forse Pierre potrebbe proprio ricominciare da lì, e noi con lui.
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