Forrest Gump corre. Perché ne ha voglia, ossia perché non ne può fare a meno. Corre finché non si sente «un po' stanchino» e allora si ferma, si gira e torna a casa, seguendo il destino di ogni eroe. All'inizio corre da solo, percorrendo in lungo e in largo gli Stati Uniti d'America. Ma poi, lentamente, una piccola folla prende a seguirlo, tutti a passo di corsa, tutti dietro alla speranza invisibile che lui, lo sconosciuto dell'Alabama, impersona senza volerlo, senza neppure saperlo. La verità è che non si decide di dare speranza. È qualcosa che capita, come il bello e il brutto nella vita. Forrest Gump non sa altro: che le cose capitano e che, fino a quando ne avrà voglia, continuerà a correre. E potrà farlo soltanto al cinema, con buona pace dello scrittore Winston Groom, autore del romanzo da cui nel 1994 il regista Robert Zemeckis trasse il suo Forrest Gump, uno dei film più amati degli ultimi trent'anni, vincitore di una gragnuola di Oscar compresi quelli – meritatissimi – allo stesso Zemeckis e all'attore protagonista Tom Hanks.
Sì, ma perché soltanto al cinema? La risposta sta già nel termine greco che fu utilizzato per dare un nome a questa strana forma d'arte contaminata con la tecnologia. "Cinema" viene da kinesis, che significa movimento. Di questo, infatti, si compone il cinema: di immagini in movimento. Immagini di corsa, verrebbe da dire, tornando alla favola disarmante dello sprovveduto Forrest, figlio unico di madre sola (una bravissima Sally Fields). Uno che della vita non sa nulla, appunto, salvo quel che impara strada facendo e che adesso, al termine della lunga corsa che è stata la sua esistenza, ci racconta seduto su una panchina, mentre aspetta di rivedere finalmente l'amore della sua vita, la bellissima e disastrata Jenny (l'attrice Robin Wright). Forrest ci assomiglia, e non solo perché con noi spettatori condivide, in questo preciso momento, il fatto di starsene immobile, in attesa, lasciando che tutto scorra davanti e attorno a lui. Ci somiglia perché la vita di ciascuno si compone di avvenimenti minimi, che spesso si confondono con altri che, al contrario, si illudono di darsi importanza.
Forrest è stato campione di football ed eroe di guerra, imprenditore di successo e, sempre a sua insaputa, artefice della fama di Elvis Presley. Non ha mai smesso, però, di essere una persona fragile e poco perspicace, un idiota in senso letterale prima che figurato. Eppure la sua semplicità senza difese non è lontana dalla santità di cui il principe Myskin di Dostoevskij va in cerca. Sì, perché Forrest Gump è anche un film religioso, con almeno una scena di trasparente derivazione evangelica, quella della pesca provvidenziale – di gamberetti, nella fattispecie – alla quale il protagonista si dedica dopo essere scampato alla tempesta con il tenente Dan (impersonato da Gary Sinise), forse il personaggio più complesso del film. Forrest gli ha salvato la vita in battaglia, ma laggiù in Vietnam il tenente ha lasciato tutt'e due le gambe, e allora è come se non sapesse che farsene di questa vita che gli è stata salvata. Dan lotta con Dio, come Giacobbe e Giobbe prima di lui. Viene vinto, come sempre accade.
«Non sono un uomo intelligente, ma l'amore so che significa», dice Forrest, orgoglioso per una volta, dopo che Jenny (nella cui inquietudine si riassumono i sommovimenti della società occidentale tra gli anni Sessanta e Ottanta) ha respinto con dolcezza la sua proposta di matrimonio. Del resto si può fare a meno, perfino dell'intelligenza. Ma è l'amore, e nient'altro, che ci fa correre e ci fa sperare.
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