Buono e ricco. È l'olio extravergine di oliva che in Italia rappresenta una delle vere eccellenze alimentari nazionali, in grado di portare il buon nome del Paese in giro per il mondo, fare invidia alla concorrenza internazionale e gareggiare in virtù (economica) con il vino. A patto che sia Dop (Denominazione di origine protetta), vincolo che, a ben vedere, non esclude che vi siano buoni olii senza marchio europeo ma che, in ogni caso, costituisce per davvero una garanzia di salubrità e genuinità che in mercati difficili come quelli agroalimentari può rappresentare un'arma in più.
A testimoniare le conquiste della olivicoltura nostrana sono i numeri dell'ultimo rapporto sulle Dop realizzato da Unaprol (Consorzio plivicolo italiano), con la collaborazione di Federdop-Olio, la federazione italiana che raggruppa l'81% di tutti i consorzi di tutela delle Dop nel settore dell'olio di oliva. Il 38,5% di tutti gli oli riconosciuti a livello comunitario come extra vergini di oliva a denominazione di origine protetta parla, infatti, italiano. Mentre sono 40 in totale i riconoscimenti assegnati al Belpaese, 39 Dop e una Igp su 104 in tutta l'Unione Europea. L'export di oli DOP e IGP rappresenta in termini monetari il 4% del totale dell'export di tutti i prodotti a denominazione di origine ed è destinato per quasi il 60% a Paesi extra Ue, ma rappresenta appena l'1% di tutto il consumo di oli extra vergini di oliva a livello nazionale.
Al di là di questi primati numerici, il settore non raggiunge, però, alti volumi di prodotto certificato che stando agli ultimi dati disponibili, si è attestato su 10.300 tonnellate (+22%). Ottimi numeri, quindi, che tuttavia devono essere accompagnati da altre rilevazioni. La struttura del comparto, infatti, registra circa 19mila aziende produttrici di oli Dop, 93mila ettari coltivati e oltre 1.500 aziende di trasformazione. Grande ricchezza e varietà produttiva, ma anche un'eccessiva frammentazione che rischia di trasformarsi in un freno alla crescita commerciale del settore. Anche se, dall'indagine - è stato spiegato dagli analisti - emerge che il 47% dell'olio sfuso a Dop è stato conferito a cooperative e associazioni. Il 19% è stato venduto a grossisti e intermediari, il 14,8% all'industria e il 13, 5% ai frantoiani; il 30% viene venduto direttamente al consumatore. Una quota del 17% viene ceduta alla ristorazione. Il 12% prende la strada di agriturismi e negozi specializzati, mentre il 13% finisce al mercato dell'ingrosso.
Tutto bene quindi? Non proprio, visto che la grande quantità di imprese coinvolte significa anche la mancanza di una strategia commerciale uniforme e che possa contare su volumi di prodotto importanti. Ed è proprio sul fronte dei mercati e del modo di affrontarli che il mondo olivicolo si spacca. I produttori non hanno dubbi: c'è bisogno di un'unica strategia di promozione e non di contrapposizioni tra consorzi, altrimenti i costi saranno più elevati dei benefici.
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