Sarebbe bello (forse troppo) che, nella mutazione linguistica del processo derivante dalla cosiddetta “globalizzazione”, imparassimo a perfezionare la lingua che ci caratterizza in quanto parlanti italiani e, separatamente, perfezionare quella che con tutta evidenza sta diventando la “lingua franca” d'Europa, l'Inglese. Ma il fenomeno che si sta verificando è la diffusione di un'incongrua miscela delle due, un'ibridazione su cui vale la pena soffermarsi. “Farciamo” di terminologia inglese le nostre conversazioni in italiano per renderle più “sapide”: qualcosa di simile al “latinorum” manzoniano volta a una legittimazione zoppicante assai di concetti di cui esibiamo la forma intuendone la spendibilità del contenuto, spesso solo supposto. In questo caso, l'ambito in cui si costruisce tale “idioletto” (Roland Barthes) è quello economico o meglio finanziario, supposto portatore di verità “alte” o comunque, in un sempre più serrato tecnicismo delle comunicazioni, utile. L'Inglese dunque percepito come valore linguistico aggiunto e non come “altra lingua”. Più sottile quanto capillare l'impoverimento della conoscenza della nostra lingua nazionale. Il proverbiale “congiuntivo variabile” di Fantozzi si è ormai imposto con forza, spesso motivato in qualche modo da un registro che vuol essere diretto, popolare. L'imperativo inconscio è quello di semplificare (e impoverire) tutto il più possibile, ricorrendo a frasi idiomatiche e abolendo la paratassi. Un italiano sempre più povero, un italiano “nuovo”, basico, puntellato da “plus-significanze” lessicali inglesi.
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