Il trentenne Salvatore Ferlita, critico militante e docente universitario, ha pubblicato un volumetto dal titolo ironico e provocatorio: Contro l'espressionismo. Dimenticare Gadda e la sua eterna funzione (Liguori). Si tratta di un dossier che documenta l'esistenza di una linea (spezzata ma ininterrotta) di valutazioni critiche che mettono in discussione la centralità dell'asse espressionistico Contini-Gadda. Cronologicamente, ai due estremi della linea, troviamo Cesare Cases e Raffaele La Capria, fautori della limpidezza stilistica, e fra i più giovani Massimo Onofri, Enrico Testa, Raffaele Manica. Il bello è che una frase dello stesso Gadda, in una lettera a Contini del 9 aprile 1963, ci mostra quanto poco convinto di se stesso fosse l'autore del Pasticciaccio. La frase è stata scelta da Ferlita come epigrafe del suo saggio e sembrerebbe di per sé sufficiente a chiudere la discussione prima di aprirla. Dice Gadda a Contini: «Il mio lavoro è logicamente, esteticamente, e narrativamente "sbagliato", fondandosi sulla stolta speranza di "narrare intorbidando le acque"». C'è poco fare. Gadda dissente dalla sua poetica. O meglio, nega perfino che sia una poetica, cioè un progetto consapevole, una scelta convinta, una qualità positiva. Gadda si sente difettoso, si sente sbagliato. Guai perciò a chi lo tradisce trasformando il suo tipo di scrittura in un valore canonico, nel codice della più corretta modernità. Ma lo «sbaglio» di Gadda e la sua «stolta speranza», nelle mani di molti accademici e soprattutto della neoavanguardia, sono diventati un modello da seguire. In questo, il caso di Gadda non è isolato. I teorici della modernità hanno addomesticato e messo in gabbia l'angoscia e la disperazione, prescrivendole come cura di se stesse o come un dovere di adeguazione della forma letteraria al presente storico. Il fatto è che Gadda, come Céline e Musil, come Proust e Kafka, non sono imitabili. Il loro viaggio si è concluso con loro.
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