martedì 9 marzo 2021
Una delle cose meno apprezzabili nel giornalismo è autocitarsi. Ma alle soglie dei cinquant'anni di professione, sia consentita a chi scrive un'eccezione (con l'impegno che sarà la prima e l'ultima). Il 25 febbraio di un anno fa questa rubrica usciva con il seguente titolo: "Coronavirus, serve un supercommissario Ue". Tre giorni prima, a Vo' Euganeo si era registrata la vittima ufficiale numero uno da Covid 19 e l'indomani l'area padana di Codogno veniva isolata nella prima zona rossa italiana ed europea. Erano seguiti, nelle ore successive, il blocco temporaneo al Brennero di un treno Venezia-Vienna e la decisione della Romania di imporre una quarantena a chiunque arrivasse da Veneto e Lombardia.
In quei giorni, quando al nostro lockdown nazionale mancavano ancora due settimane, la gravità della pandemia incombente non era percepita nella sua ampiezza. L'Italia appariva come unica "isola infelice" e il rischio principale che emergeva per la Ue era il dissolvimento dell'"area Schengen", peraltro già messa in seria crisi dal terrorismo. L'anno che è seguito ha mostrato che c'era in ballo molto di più. In particolare, la crisi dei vaccini ha portato alla luce per l'Unione l'incapacità, istituzionale e politica, di muoversi compattamente come un soggetto unico in caso di allarmi planetari.
Alle radici di questa carenza c'è evidentemente la mancanza di un "idem sentire" degli europei e in primis dei loro governanti, il non comprendere che vivere a Tallin o Siviglia, come a Dublino o a Nicosia, significa, almeno in certi casi, stare comunque sulla stessa barca, appartenere a un'unica entità. È un limite storico-culturale che solo il tempo può – speriamo – aiutarci a superare. Ma oltre al tempo anche i fatti, la nuda realtà di questi 13 mesi, dovrebbero essere d'insegnamento nella loro tragica eloquenza.
In queste ore Bruxelles e le altre capitali sembrano rassegnate a una sorta di "diaspora vaccinale". Gli errori nella trattativa con le grandi multinazionali produttrici, gli strappi a ripetizione di governi nazionali per reperire dosi aggiuntive a quelle concordate insieme ma in persistente ritardo rispetto ai tempi di consegna previsti, le fughe in avanti di chi guarda a futuri accordi con Paesi terzi, le polemiche che già avvolgono il progetto di una "passaporto" di immunità al virus per circolare tra i 27 Stati: sono tutti elementi di un quadro a tinte cupe, che può suggerire due opposte vie d'uscita.
La prima è appunto quella di una presa d'atto che ormai il danno è fatto e non si può riparare. La consapevolezza che l'Europa di cui disponiamo è questa, che i suoi meccanismi decisionali non permettono di più, rende improponibili soluzioni alternative. Tanto meno il ricorso a strumenti eccezionali, come appunto supercommissari o cabine di regia dotate di poteri che il Trattato in vigore non consente. Una sorta di resa, insomma, ammantata di realismo.
L'alternativa è cominciare a pensare – oggi, non a pandemia finita – alle emergenze che verranno. Non ci si illuda che questa lezione della storia sarà unica e senza uguali. Le vicende umane, anche quelle in corso, hanno un valore pedagogico. L'Europa si attrezzi dunque per rispondere, in caso di sfide analoghe al coronavirus, con la necessaria tempestività, con nuove formule di intervento, soprattutto con un centro decisionale unico e politicamente accettato. Ci sarà da scrivere regole diverse? Si cominci ad elaborarle subito. Si dovranno vincere resistenze nazionali e di opinioni pubbliche deluse dalla cattiva prova fornita in questi mesi? Si dia vita a un confronto spassionato e senza remore. I veri europeisti si sveglino, senza aspettare la "grande conferenza" sul futuro dell'Ue, che rischia di partire già ingessata.
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