domenica 8 giugno 2008
Ho rivisto l'altra sera in tv, 40 anni dopo, Dragan Dzajic. Il grande Dzajic ci fece tremare, la sera dell'8 giugno 1968 quando, al minuto 39, portò in vantaggio la Jugoslavia nella finale dell'Olimpico. Un sessantenne ancora in bella forma, elegante, l'aria serena, gli occhi di ghiaccio addolciti dal tempo. Ma l'idea di fondo, sempre la stessa, le parole, le stesse che disse quella sera: «Secondo me, quella punizione non c'era».
All'80, quando ormai le speranze di pareggiare andavano svanendo, l'arbitro svizzero Dienst, lo stesso che ci aveva benevolmente arbitrato a Napoli in un quarto di finale contro la Bulgaria, fischiò un generoso fallo a nostro favore vicino all'area slava e ricordo ancora Angelo Domenghini impossessarsi della palla rapinosamente, attendere la barriera e spedire un siluro fra le gambe di un avversario e alle spalle del portiere Pantelic.
Era un sabato sera voglioso di feste che furono tutte rimandate - e poi allegramente celebrate - il lunedì successivo, quando Riva e Anastasi firmarono la vittoria certa e indiscutibile. L'Olimpico s'illuminò di fuochi fatui per celebrare il trofeo che non avremmo più vinto. Si direbbe per la forza del destino che allora troppo ci diede eppoi tutto ci tolse, fino al drammatico golden gol di Trezeguet, che ci negò il secondo Europeo il 2 luglio del 2000, e al gollazzo di Ibrahimovic che ci cacciò da Portogallo 2004.
In realtà, l'Europeo ci sfugge da quattro decenni soprattutto perché è più duro del Mondiale. Guardate la composizione del girone: ci aspettano Olanda, Romania e Francia, i baldi giovani di Van Basten, gli affamatissimi compagni di Mutu e Chivu, i fastidiosi bleus del vendicativo Domenech che vorrebbero incenerire Materazzi; mentre in Germania, due anni fa, ci avviammo verso la finale lasciando per strada il Ghana, gli Usa, la Cekia, eppoi l'Australia e l'Ucraina, nazionali che all'Europeo avrebbero giusto il peso dell'Austria, pallida memoria del Wunderteam di Sindelar.
In sede di pronostico, non ho nascosto l'ammirazione per Portogallo, Spagna e Germania, squadre che ritengo tecnicamente più dotate della nostra e comunque tatticamente aggiornate dalla «lezione» dell'Italia di Lippi. Non è un caso che l'impresa di Berlino - per molti stupefacente - abbia indotto gli spagnoli ad arricchirsi di prudenza in chiave lippica e addirittura il calcio inglese, orgogliosamente devoto ai propri saldi concetti offensivistici, a farsi guidare dall'italianissimo Capello mentre in coppa Campioni il baronetto Ferguson esibiva un brillante catenaccio all'italiana. Certo mi farei convincere ad avere fede fino in fondo nella Nazionale di Donadoni se non la vedessi distante - per rabbia agonistica ma soprattutto per salute difensiva - da quell'Italia che il 17 novembre 2007 sconfisse la Scozia sul suo campo con il colpo di testa di Panucci. Già mi aveva insospettito l'abbondanza di ottimi attaccanti, frutto di una involuzione (c'è chi dice evoluzione) del nostro calcio, sempre più povero di difensori. Poi è saltato Cannavaro, il capitano pettinfuori che ha costruito con Buffon il trionfo mondiale; e ha tremato per una botta anche Panucci.
In queste ore Donadoni sta forse meditando una coppia-di-ferro inedita, Chiellini e Gamberini, e l'attesa è naturalmente piena di dubbi. Sui quali si sorvola - forse per non soffrire - dedicandosi magari a Del Piero, alla fascia di capitano che doveva toccargli per lunga milizia e che invece è andata a Buffon, prova certa che Alex non è considerato titolare. Il raffinato bomber juventino fa sempre notizia, prima o poi s'accenderà anche il classico dualismo (giù le mani da Di Natale, dico io). Non aiuta il pronostico il fatto che abbiano rinnovato il contratto a Donadoni pochi giorni fa, fors'anche a malincuore, mentre Lippi è lì dietro l'angolo. Dall'82 per me l'Italia mondiale è una fede; dal '68 quella europea è una bella speranza.
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