Non è il petrolio del Golfo, non sono i diamanti africani, non sono neanche le richiestissime terre rare sparse per alcuni fortunati Paesi. Ma anche l’Europa ha la sua grande riserva naturale, un tesoro che ammonta a 33mila miliardi di euro. Sono i risparmi delle famiglie, che per oltre un terzo – precisamente il 34,1% - sonnecchiano sui conti correnti bancari, ad arricchire molto poco chi ne è titolare. Ma il vero problema è un altro: la lenta e inesorabile fuoriuscita, stimata intorno ai 300 miliardi
l’anno. È quanto ogni anno i risparmiatori del Vecchio continente dirigono verso gli Stati Uniti e i suoi grandi fondi d’investimento, che – a loro volta – raramente si fanno lo scrupolo di ritornare quanto ricevuto finanziando progetti di sviluppo europei.
È qui che si concentra una delle azioni proposte dal Rapporto sul futuro del Mercato unico europeo presentato da Enrico Letta un paio di settimane fa, a conclusione di un incarico ricevuto dalle istituzioni comunitarie. Così come hanno fatto nelle ultime settimane l’ex premier Mario Draghi, il governatore di Bankitalia, Fabio Panetta o il presidente francese Emmanuel Macron parlando alla Sorbona giovedì, anche Letta ha insistito su un concetto: solo un’Europa più coesa nel costruire il proprio futuro potrà sopravvivere in un mondo sempre più competitivo. Vista la natura dell’incarico, Letta ha fatto qualche passo in più nell’elaborare proposte concrete, tra cui colpisce l’idea di una Unione dei risparmi e degli investimenti. La premessa sta nelle cifre menzionate prima: le risorse ci sono, e sono elevate; piuttosto, c’è da convogliarle su progetti strategici per lo sviluppo del continente. Come quelli necessari al Green Deal: la Commissione ha stimato che serviranno investimenti aggiuntivi per 620 miliardi l’anno, che – visto l’ammontare monstre – non potranno gravare sui bilanci pubblici, nazionali o comunitari, e pertanto dovranno arrivare dal settore privato. A sua volta, osserva il rapporto Letta, i privati dovranno trovare la loro convenienza a finanziare questo genere di iniziative. Di qui l’idea di costruire un mercato unico dei risparmi e degli investimenti, cioè dell’offerta e della domanda di denaro privato, in cui regole e garanzie comuni possano favorire l’afflusso di risorse da Paesi diversi dell’Ue ma alle stesse condizioni.
Se si esce dalla finanza pubblica, è il non detto, si esce anche dal solito binomio di Paesi buoni e cattivi, di formiche e di cicale. L’Italia è un caso emblematico: con uno Stato super indebitato e famiglie molto ricche, potrebbe finalmente dismettere i panni dell’ultimo della classe e trovare più soddisfazioni che bastonate. Purché, appunto, il mercato sia unico e alimenti la fiducia dei risparmiatori, milioni di persone che oggi – più o meno consapevolmente, spesso su suggerimento di banche o gestori
– sottoscrivono prodotti di investimento dei grandi fondi americani, da BlackRock in giù, che promettono grandi ritorni ottenuti
molto lontano non solo dall’Italia ma anche dall’Europa. I punti chiave sono due: la trasparenza, ma anche la disponibilità di strumenti che avvicinino chi risparmia a chi ha bisogno di quei risparmi, a partire dalle imprese ad alto tasso di crescita. Qualcosa del genere, in Italia, è accaduto negli anni scorsi con i Pir, i piani individuali di risparmio, esperienza mutuata dall’esperienza francese che ha visto nascere nuovi fondi di investimento esposti su Pmi, start up e in generale l’economia reale. C’è da ripartire di qui, osserva il rapporto, e dagli strumenti – come gli Eltif, una specie di Pir in versione XL – che l’Europa ha saputo creare. «Il più grande nemico del mio rapporto è il cassetto, evitiamo che finisca lì dentro», ha dichiarato Letta. A prendere polvere come quei miliardi di risparmi lasciati in banca.
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