Da parecchi mesi passavano scarse nuvole, alte, sempre magre e senza ombra. Un cielo così azzurro non si era mai visto. O forse quella brillantezza accecante era dovuta al contrasto con una vegetazione aspra e secca. E la terra gialla e spaccata da enormi squarci. Della strada "Imperiale" voluta dal maresciallo Graziani non restavano che pezzi di massicciata. Chiazze d'asfalto qua e là e tante buche. Nell'Ogaden etiope, tra la cittadina di Gode e l'avamposto di Kelafo, sulle sponde dello Shebeli, dove nel 1936 si costruiva il sogno coloniale italiano che voleva unire Mogadiscio con Addis Abeba, erano rimasti i baraccamenti militari di quell'epoca. Ruderi. Regno per tante famigliole di babbuini dispettosi, ma anche dei primi sfollati.
Era l'inizio di questo Terzo millennio, 16 anni dopo la terribile carestia del 1984 che fece un milione di morti in Etiopia. Non pioveva da tre anni, ciononostante, affidandosi al fiume, già malato, gli agricoltori avevano seminato durra e farro. La siccità aveva fatto il resto. Mangiate anche le ultime scorte delle sementi da usare per il secondo raccolto dell'anno, non rimaneva più nulla. Solo rametti di acacia da masticare o le rare erbe selvatiche commestibili da bollire nell'acqua presa dal fango del fiume, sempre più moribondo.
La morte per sete e fame è la più silenziosa, tra tutte le morti. Un grido muto accarezza la bocca spalancata che non riesce più a deglutire; aridi si fanno gli occhi, senza più una sola goccia per piangere. Ricordo ancora, e con lo stesso senso di smarrimento di allora, l'ideale "linea rossa" formata da quella staccionata di legno che stava tra me e il dispensario medico. Quella divisione metteva in chiara evidenza la separazione tra il mio mondo di privilegi e il mondo delle morte senza appello. Dei bambini con le teste ciondolanti e le bocche socchiuse, piccoli scheletri deposti tra le braccia di madri mute e consapevoli che l'indomani avrebbero sepolto i loro cuccioli in anonime tombe. Buche che presto si confonderanno con la sabbia e che nessuno riuscirà a ritrovare più.
Il deserto avanzava e la bestia della carestia era uscita dalla terra. Non seccavano solo i raccolti, non morivano solo bambini e vecchi. La carestia uccideva il bestiame. La carestia si nutriva di tutta la vita. Le carcasse mummificate di mucche e pecore segnavano le piste a perdita d'occhio. Un solo animale aveva il privilegio di non temere la sua fine. La iena. Di notte, nelle ore appena un poco più fresche del giorno, sentivo il ghigno beffardo delle iene che si aggiravano nei pressi del dispensario. Nulla le spaventa. Solo il fucile riesce a tenerle a distanza. Quello del medico italiano sperduto in quel mare di sabbia, tra fame e moribondi, che cercava di fare qualcosa senza medicine.
Acqua. È la cosa che più si cerca quando il vento fa danzare la sabbia, mentre il caldo è spaventoso e l'aria che si fa ardente. Non averla è una sofferenza che solo chi ha provato la carestia e il deserto può comprendere. In quel luogo lontano, il fiume Shebeli, il fiume del leopardo, era la ricchezza anche per i pastori della popolazione nomade di etnia somala: bere, lavarsi, cucinare. Ma adesso a morire erano pure i cammelli. Un pastore mi disse: «Quando vedrai morire il tuo primo cammello, allora è Allah, sia pace e benedizione su di lui, che ti dice che è giunto il momento di partire». Acqua, bene prezioso, grande privilegio. Non sprechiamola.
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