«Il Papa non ce l’ha fatta» fu l’espressione con cui l’allora conduttore del Tg1 David Sassoli comunicò, la sera del 2 aprile 2005, la morte di Giovanni Paolo II dopo una breve, ma mediaticamente lunghissima, agonia. La perifrasi è infatti molto diffusa per annunciare il decesso di un malato grave: «Essa corona, con rammarico, quanto era stato comunicato nei giorni precedenti, dicendo “sta lottando...”». Ma fino a qualche tempo fa era «poco immaginabile», scrive Piero Stefani. Da qui il biblista prende le mosse per riflettere su «L’attaccamento alla vita terrena» nell’ultima puntata della rubrica “Parole delle religioni”, che tiene da molti anni su “Il Regno” e che si può leggere anche sul sito della rivista ( bit.ly/2X2Dk6q ). L’espressione, che appartiene al linguaggio della prestazione e delle dinamiche competitive, non doveva trasferirsi – chiosa a ragione Stefani – in un ambito, quello del morire, «per definizione estraneo a ogni produttività»: davanti alla morte, prima o poi, nessuno ce la fa. Meglio allora l’antica e ormai disusata espressione «agonia», che l’idea di «non farcela» l’aveva implicita, e che se rimandava, etimologicamente, a una lotta, era impiegata pensando a un oltre. Non ho potuto fare a meno di pensare, leggendo questa meditazione, a quanto le cronache post–Covid delle ultime settimane siano piene di «quelli che ce l’hanno fatta»: di quanti cioè, colpiti gravemente dal virus, hanno combattuto e «vinto», nel senso immanente di essere rimasti in questa vita. In ambito ecclesiale ho trovato particolarmente sintoniche con la riflessione di Stefani quelle pronunciate da don Ennio Apeciti, rettore del Pontificio Seminario Lombardo di Roma, in un’intervista, segnalata da Luigi Accattoli, al magazine della Chiesa di Milano “La Chiesa nella città” del 16 luglio scorso ( bit.ly/2ErDPAM ): «Sentivo che forse ero arrivato alla fine, ma questo mi ha aiutato perché ho capito che l’essenziale era lasciar fare a Dio».
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