«L'Europa è innanzi tutto un fenomeno culturale». Così si esprimeva il 19 aprile 1972, nella magnifica cornice di Palazzo Vecchio, il ministro degli Esteri Aldo Moro. Di lì a poco, assieme al collega titolare della Pubblica Istruzione Riccardo Misasi, avrebbe firmato a nome dell'Italia la Convenzione per la nascita dell'Istituto universitario europeo di Firenze. L'allora Comunità economica europea (la Cee, antenata dell'odierna Unione) era formata ancora da soli sei membri, anche se pochi mesi dopo sarebbero entrati a farne parte Regno Unito, Danimarca e Irlanda.
A tre giorni dal 40° anniversario del rapimento dello statista democristiano e della strage di Via Fani, questo "frammento" quindicinale non può che essere dedicato a lui e al suo straordinario ruolo anche nella costruzione dell'edificio comunitario. E tra i suoi tanti interventi e discorsi di taglio europeista, quello fiorentino di 46 anni fa offre una sintesi impressionante del suo pensiero e della sua lungimiranza. Acuendo il rimpianto per la perdita che il terrorismo omicida inflisse al nostro Paese e all'intero Continente.
Convinto che quel giorno si stava ponendo in qualche modo «la prima pietra» di una inedita «comunità della cultura», Moro indicò l'obiettivo di «costruire nel nostro continente una società libera ed aperta, non dimentica delle sue tradizioni, ma in piena espansione culturale, economica e politica». Un luogo di alta formazione, dunque, quello che stava per sorgere presso la Badia Fiesolana, per far respirare ai futuri dirigenti europei «quei valori senza i quali non si costruisce un'Europa capace di guardare al suo avvenire e di assolvere alla sua grande missione nel mondo».
Nella visione morotea, il ruolo futuro dell'Unione partiva dalla consapevolezza di uno scenario internazionale di crescente complessità e in rapido mutamento. Pochi mesi prima, nell'ottobre del 1971, lo statista italiano aveva parlato all'assemblea generale delle Nazioni Unite, delineando il «grande disegno» che la Cee si assegnava: da un lato abbattere le residue «diffidenze e rivalità» fra i popoli delle nazioni coinvolte, causa di due guerre mondiali; dall'altro restare «aperta a tutti i popoli europei che si ispirano alla stessa concezione della vita politica e che intendano aderirvi». E subito dopo, chiedendo retoricamente se una simile opera potesse essere considerata «dannosa a qualcuno», aggiungeva: «La risposta è: no. Essa non è diretta, e non sarà diretta, contro alcun popolo, bensì contro la guerra, il peso degli armamenti, la fame e il sottosviluppo, contro l'iniquità, contro tutto ciò che è suscettibile di impedire i contatti liberi e fecondi fra tutti gli uomini».
In questa frase si compendia tutto l'afflato europeista e insieme universale di Aldo Moro, che a Firenze risuonò poi di nuovo sul terreno più strettamente culturale. Ricordando le conclusioni della prima Conferenza preparatoria della Convenzione, svoltasi due anni prima sempre nel capoluogo toscano, sottolineò «i possibili legami tra questo Centro e le civiltà extra-europee», proprio perché la cultura è destinata «a diventare parte integrante anche della politica comunitaria verso i Paesi emergenti».
Mirabile si rivelò, infine, l'indicazione del duplice compito che la cultura può svolgere per salvaguardare le diversità, contribuendo nello stesso tempo a integrarle in una più vasta appartenenza comune: essa ha infatti da un lato «un profondo ancoraggio popolare», che si nutre di lingue, tradizioni e storia «di ciascuno dei nostri Paesi»; ma dall'altro lato, per sua stessa natura, «rifiuta ogni forma di isolamento». La sola sintesi possibile è dunque tra
«radice popolare ed universalità». Altrimenti non c'è cultura europea.
Altro che sovranismi. Risuonano in quelle parole le ispirazioni ideali di Sturzo e La Pira, rielaborate al servizio di un progetto – l'Europa – che nessun terrorismo può distruggere. Purché si trovino oggi e in futuro nuovi cuori capaci di sostenerlo.
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