Ora che il lockdown sta per finire, ora che torneremo, spero, liberi, un'immagine mi resterà in mente, di tre mesi di Italia prigioniera.
Roma, domenica 20 aprile. Sole, la città deserta bella come mai, eppure sgomenta nell'innaturale silenzio, nel vuoto delle piazze abbandonate. A piazza Venezia, a mezzogiorno, soltanto i due soldati di guardia all'Altare della Patria. Nessuno sulla scalinata dell'Ara Coeli, e solo il vento e i primi papaveri rossi, fra le colonne del Foro. Mentre camminavo smarrita ho avvertito un ronzio di elicottero: ho alzato gli occhi, era la Polizia che sorvegliava la Capitale immobile.L'apparecchio compiva lenti giri sulla città, e ogni due minuti tornava sulla verticale della piazza: lo sentivo allontanarsi e poi riavvicinarsi, il fragore delle pale martellante nella quiete totale.
L'elicottero andava e tornava, e mi resi conto che qualcosa, in quel rombo battente, mi comunicava inquietudine. Un'ansia che non c'entrava con l'epidemia, ma riecheggiava altro, qualcosa di passato, di già visto anni prima. Finito il suo turno, l'apparecchio sterzò nel cielo e scomparve all'orizzonte. Allora capii: 28 febbraio 2013, l'elicottero con cui Benedetto XVI lasciava San Pietro. Anche allora avevo alzato gli occhi sgomenta, non potendo credere a ciò che vedevo. Così di nuovo, il 20 aprile scorso, non volevo credere a Navona e Trevi deserte, alle mascherine sui volti, alle camionette dell'Esercito a sbarrare viale della Conciliazione, a San Pietro chiusa. Una sensazione di irrealtà, come stessi guardando un film apocalittico. Quasi si fosse sul ciglio di un burrone, quasi che indietro non si potesse tornare.
Ora che l'Italia riparte, penso a quel mattino come, svegliandosi da un incubo, si tira il fiato. E si aprono gli scuri, a rinfrancarsi con la luce del giorno.
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