Le otto e venti del mattino di un venerdì. Le campane della chiesa vicina suonano, chiamano a Messa. Le ascolto prima distrattamente, mentre riordino la cucina, poi mi fermo, e sorrido: le campane della Messa sono tornate. In questi primi giorni di giugno la città attorno mi riporta i suoi consueti rumori. Dal cortile le voci dei condomini che escono, e salutano la portinaia. Dalla strada, frequente, il rombo dell'autobus 43 che corre in centro. Fragore di saracinesche che si alzano, e il tonfo dei bidoni che gli spazzini svuotano nel ventre del camion delle immondizie, ormai in ritardo. Poi il camion tozzo, lo so, farà ritorno velocemente al deposito, come un animale notturno che scompaia con la luce del giorno. Mi cullo, nei suoni cari e ritrovati. Tendo l'orecchio: dal viale arriva l'eco dei tram che vanno verso il Castello. Quanto amo la voce metallica, scura, malinconica che fanno nell'allontanarsi: la voce dei tram, è Milano. E poi, da un appartamento affacciato sul cortile, attaccano trapani e martelli: si lavora. Gli operai si scambiano ordini in una lingua dell'Est. Nei vestiti sporchi di calce, nelle mani callose, del tutto simili a quei ragazzi del Sud che sessant'anni fa costruirono le nostre periferie metropolitane. (I loro figli, forse, parlano già italiano). E ora scenderò al bar cinese, il mio preferito, dove si avvicendano vecchi milanesi con il cane e sfortunati giocatori d'azzardo, e uomini soli, e già alle sette la grappa corregge i caffè dei clienti abituali. Un'umanità di poveri, che mi è cara – quella per cui suonano, alle otto e venti, le campane. La barista batte i filtri del caffè per svuotarli, svelta. E anche questa raffica secca, è il rumore di Milano. L'ho vista, la mia città, esanime, muta, immobile. Che letizia provo, nella Milano ritrovata.
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