mercoledì 23 ottobre 2019
Questa Vita di Alfons Mucha, di Patrizia Runfola (Lindau, Torino 2019, pp. 268, euro 24), non è propriamente una biografia, è il racconto dell'avvicinamento geografico e culturale dell'autrice al protagonista delle sue ricerche, il pittore e illustratore che può essere considerato l'ultimo esponente dell'Art Nouveau internazionalmente noto anche per il suo attaccamento alle tradizioni boeme. Più che di Mucha (1860-1939), dunque, sentiamo parlare di Patrizia Runfola (1951-1999), alla quale Claudio Magris, nella prefazione, applica addirittura «i tocchi di luce di Rembrandt che strappano le tenebre». La fonte principale di Runfola sono i lunghi colloqui con Jirí Mucha, il figlio di Alfons, e lunghi brani di tali colloqui sono inseriti testualmente nella narrazione. Da altre fonti apprendiamo che l'attività di Mucha pubblicitario comprende marchi e locandine per Nestlé, spumante Moet & Chandon, biscotti e profumi di alto livello, ma la svolta decisiva avverrà nel 1894, con il manifesto di “Gismonda” per Sarah Bernhard: da allora si consoliderà la fama internazionale di Mucha, e con la grande attrice si rafforzerà un legame non soltanto professionale. Lunghi soggiorni a Parigi, dove conoscerà i poeti e i pittori più significativi del suo tempo, e in America lo arricchiranno non solo culturalmente, ma non cancelleranno mai i suoi legami con la nativa Boemia e, più in generale, con le tradizioni slave. Soggetto preferito dei suoi quadri e dei suoi manifesti sarà sempre la donna dalla pelle levigata, quasi botticelliana. Mucha fin negli Anni Trenta continuava a dipingere le sue donne lungocrinite con ieratici sorrisi che, di lustro in lustro, sarebbero finite nel kitsch dei calendarietti profumati dei barbieri d'epoca. Nel frattempo, c'erano stati gli impressionisti, i futuristi, i cubisti, i pittori metafisici, e Mucha sempre intento ai suoi ghirigori. Veramente, negli ultimi anni ci fu una svolta. Mucha volle dare un'anima alla tradizione slava, ed elaborò un ciclo di venti gigantesche pitture dell'Epopea slava, in cui l'aspetto storico e il sovrasenso simbolico sono indissolubilmente legati. L'Epopea slava fu terminata il 1° settembre 1928 e ufficialmente inaugurata il 23 dello stesso mese. Mucha la donò alla città di Praga, con l'unica condizione che fosse esposta agevolmente al pubblico. Le gigantesche tele, dopo la prima esposizione al pubblico, vennero trasportate nel Fair Ground industriale di Brno, poi in una scuola di Praga, quindi vennero arrotolate e messe da parte. In verità un problema obiettivo che ostacolava la loro definitiva installazione erano le dimensioni imponenti. Tanto che ben pochi erano i luoghi in grado di accogliere l'Epopea slava, peraltro criticata dagli artisti e dal pubblico ungherese, che ritenevano ormai troppo accademico il gusto di Mucha, intriso di cristianesimo e di miti antichi: Mucha è stato gran comandante della massoneria cecoslovacca. Dal 2012 i venti immensi quadri (6 metri per 8) sono esposti nel Veletržní Palác di Praga.

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