Èsingolare, paradossale, la campagna mediatica montata su due protagonisti - un Più e un Meno - del campionato per avviarli ad altra meta: il primo all'estero, il secondo fuori dai piedi. Dico di Antonio Conte e Clarence Seedorf, le due facce della stessa medaglia coniata per rappresentare la natura contraddittoria quanto intellettualmente deficitaria del calcio italiano. Adeguatamente reclamizzate dai media che han finito per adottarle con spesso entusiasmante partecipazione. Fa un certo effetto, ad esempio, leggere il tono scandalizzato col quale si condanna - giustamente - il lancio delle banane a Bergamo, mentre si registra con malcelato piacere la sentenza «è un matto» scagliata nello stesso luogo da Galliani a Seedorf per il tramite del nipotino che chiedeva chiarimenti su una scelta del tecnico. Ho criticato il professor Clarence al suo esordio, quando preferiva dare ai suoi allievi lezioni di filosofia e non di tattica perdendo le partite; ne ho poi apprezzato il pur forzato ravvedimento (cosa deve desiderare dippiù, un critico?) coinciso con una sequenza di vittorie quando, alla vigilia di Atalanta-Milan, è arrivata la sfiducia del Padrone, magnificata dai media, attraverso una battuta di dubbio gusto che non merita neppure la citazione. Non si conosceva l'oscuro motivo che dovrebbe portare all'esonero di Seedorf, l'Atalanta vittoriosa ne ha fornito uno: il probabile addio a un posto in Europa League che “purtroppo” il Milan può ancora perseguire nonostante la squadra abbia perduto sul piano morale il suo condottiero. Tipico di questo mondo che rievoca i “ricchi scemi” di onestiana memoria anche il dibattito aperto su Antonio Conte, il trivittorioso allenatore ch'è stato capace di riportare nella storia la Juventus faticosamente uscita, piena di ferite, dalle cronache di Calciopoli. Conte ha appreso da Mourinho non tanto e non solo il cerimoniale mediatico fatto di esplosioni verbali e facciali destinate a soggiogare i pedatori e incantare i media: s'è impresso nella memoria gli esiti del post Triplete quando l'Inter, decisa a mantenere in carica gli eroi del Bernabeu, s'è avviata al declino non ancora concluso. Mourinho se n'è andato con un contratto del Real in tasca, Conte chiede attenzione e provvedimenti - un gruppo fortemente rinnovato - sicuramente speranzoso di essere ascoltato se Andrea Agnelli ha davvero voglia di collocare accanto ai 30 (32) scudetti una terza Coppa dalle Grandi Orecchie. Eppure l'Antonio Furioso sembra solo, in questa battaglia, tutti lo vogliono pieno di quattrini a Monaco o chissà dove; forse perché il riequilibrio di un torneo schiacciato dall'esercito bianconero può passare solo attraverso l'eliminazione del suo plurivittorioso generale. A me dispiacerebbe perderlo, così com'è successo con Capello, Mancini e Ancelotti, il cui dorato esilio è coinciso con un significativo calo tecnico. Piangiamo sulle italiche miserie del cosiddetto campionato della Spending Review e sull'invadenza degli stranieri, non ci battiamo per trattenere gli Italiani che valgono. Come Immobile, il bomber tricolore trattato da oggetto più che da atleta, da uomo. Non oso pensare al campionato che verrà.
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