martedì 28 aprile 2020
Eppure nel fondo della tragedia del Covid c'è qualcosa che continua a meravigliarmi. È una cosa difficile da dire. Ho visto in questi mesi persone che traversano la strada se qualcuno si avvicina e gente che disinfetta il sedile del treno con l'Ajax. Ho un vicino che apre la porta di casa solo di uno spiraglio, i guanti di lattice e la mascherina addosso. Sono tutti immunodepressi ad altissimo rischio di contagio? Non credo. Ci sono alcuni che l'epidemia ha condotto in uno stato di paura ossessiva, e si comportano come se la morte fosse in agguato in ogni bottone d'ascensore, per non parlare degli esseri umani. Mi pare irrazionale. Avrei voluto dire alla signora dell'Ajax: ha pensato a quanti virus si annidano nel condizionatore d'aria del treno? Ha pensato, lei che ha i capelli grigi, di quante altre malattie si muore alla nostra età? E di incidenti stradali, quante vittime ogni giorno? Sono stata zitta naturalmente. Però percepivo in me stupore, e quasi irritazione. Tutti i riflettori sono puntati sul nuovo insidioso nemico, e giustamente cerchiamo di difendercene. Ma nell'ossessione di alcuni intravvedo una grande amnesia: e cioè che di qualcosa, alla fine, comunque, si muore. Un giorno lontano si spera, ma con certezza. È anzi, la morte, l'unica certezza che ci accomuna tutti. Con l'amuchina sempre a portata di mano, ma una profonda dimenticanza nel cuore. Invece questi giorni potrebbero essere l'occasione per uscire dal tabù che accompagna la sola parola “morte”. Per pensarci, magari, da cristiani. Secondo quanto Cristo ci ha promesso. Un giorno lo vedremo, in una vita inimmaginabile e eterna. E ritroveremo i visi amati e perduti. La morte ha un volto orrendo: è sofferenza estrema, e angoscia. Tuttavia, al di là di quel muro c'è la promessa di Cristo – non il nulla. (Chissà perché fatichiamo anche a dirlo fra noi, quasi fosse solo un sogno).
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