A proposito del convegno sui rapporti tra «Religione e politica nella società post-secolare», su La Repubblica è apparso (venerdì 13) l'intervento, di Gustavo Zagrebelsky, che accusa di «arroganza» chi, come la Chiesa e i suoi fedeli, propone una verità e, conoscendola, «godrebbe di uno status di superiorità non solo morale ma anche civile»; e, invece, loda l'«umiltà» di chi non crede, perché «il compito di districarsi nelle difficoltà della vita dipende da lui insieme con gli altri».
Argomenti stantii, abusati e deboli, perché il credere non risolve da solo i problemi della vita e non rende il vivere da cristiani più "facile" del vivere da non credenti. Spesso accade il contrario: per esempio in politica (dove, secondo Zagrebelsky, la «Chiesa istituzione» risolve tutto a danno della democrazia) e, in ogni modo, perché il cristiano porta la responsabilità anche dei fratelli senza la fede, che il primo deve testimoniare, non imporre. A questa prima «arroganza» va aggiunta poi quella del «Dio con noi» (il «Gott mit uns» dei nazisti), dimenticando che la regola del cristiano è, piuttosto, quella dell'«Uns mit Gott» (noi con Dio), perché è piuttosto il fedele che cerca di mettersi dalla parte di Dio.
Mi domando se per Zagrebelsky questa affermazione di arroganza altrui e di umiltà propria non sia un inconsapevole alibi, che rovescia la realtà sia di chi, con arroganza, vuol farsi da solo la propria verità o negarla al di fuori di sé (vuol essere dio a se stesso: è questa la vera «superbia in sommo grado») sia di chi, invece, con umiltà riconosce i propri limiti e accetta il servizio della carità verso Dio e verso il prossimo. Se «chi non crede non dispone di nessuna sicurezza a priori», chi crede ha l'unica sicurezza di sapere che Dio lo ama, ma che ama ancor più, perché rischia di perderli, coloro che non credono in Lui.
UMANO-BOVINI
Fecondazionista e staminalista convinto, Carlo Flamigni imperversa sui giornali della sinistra radicale e no. Ce l'ha con la Chiesa e sembra non riuscire a sfogarsi. Forse anche perché non sempre gli va bene. L'altra settimana (l'Unità, venerdì 7) aveva accusato di diffamazione Avvenire, perché «per la prima figlia della provetta» un suo titolo parlava «di enormi e squallidi interessi dietro alla nuova tecnica».
Ebbene, mercoledì 12 un articolo del Manifesto (dove il giorno prima era apparsa una pagina tutta sua di polemica con il Papa: «La scienza non ha bisogno di nessun dio») s'iniziava così: «A due anni dall'entrata in vigore della Legge 40 sulla fecondazione artificiale ormai una cosa è certa: il turismo procreativo è un business». Venerdì 13, poi, su Liberazione, Flamigni si chiedeva: «Embrioni umano-bovini, dov'è lo scandalo di cui parla la Chiesa?» Forse proprio in quel titolo, professore - le piacerebbe essere un po' bue? - e un po' anche nel paragone che uno scienziato come lui equipari ai trapianti di singoli organi animali (il fegato) sull'uomo quei mostruosi embrioni: non è forse proprio perché sono tali che il governo di Londra mentre li autorizzava, ne «disponeva la distruzione entro il 14° giorno di sviluppo»? Se per caso dovessero sopravvivere e crescere, forse persino Flamigni se ne accorgerebbe.
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