venerdì 2 luglio 2021
L'oro al collo, le lacrime in faccia. Ervin Zadòr ha un sopracciglio spaccato ma è il cuore che gli fa male. Perché i Giochi sono fatti così: mischiano, feriscono, mettono il sale. Melbourne 1956, sembrano le Olimpiadi della pace: Germania Est e Ovest che gareggiano per la prima volta sotto la stessa bandiera, e alla cerimonia di chiusura senza vessilli. Con tutti gli atleti che sfilano insieme, confusi e felici come in una canzone. Mai visto prima. L'idea viene a Ian Wing un ragazzo cinese di 17 anni che sta in Australia: orfano di genitori, ma non di visioni. Israele ha da poco invaso la penisola del Sinai, così Egitto, Libano e Iraq boicottano i Giochi in segno di protesta. Poche settimane prima della cerimonia d'apertura, l'esercito sovietico entra a Budapest per stroncare la rivolta magiara: finisce in un massacro. E per protesta Olanda, Spagna e Svizzera alle Olimpiadi non ci vanno. Così Ian scrive al Cio: non sarebbe bello se il mondo fosse una sola nazione? Pensava che nemmeno leggessero, invece lo ascoltano. E approvano. Questi sono i Giochi: digeriscono la politica, e la sputano senza masticarla. Ma Ervin Zadòr, pallanuotista ungherese, intanto piange. Il destino ha messo di fronte in semifinale la sua nazionale proprio all'Unione Sovietica. E succede di tutto: prima gli insulti, poi le botte. Odio puro, l'acqua che diventa rossa di sangue, e la rissa che continua in tribuna. Zadòr rimedia 13 punti di sutura sopra l'occhio e giura di non voler più rientrare nel suo Paese occupato. Rivede Budapest solo nel 2002, dieci anni prima di morire. Con una cicatrice che non andrà mai via.
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