È accaduto ancora una volta. Colpiti in uno dei punti più delicati del sentire nazionale " quello alimentare, che equivale quasi a quello calcistico " gli italiani, gli agricoltori in particolare, hanno reagito da patrioti e hanno risposto per le rime a chi ha insinuato la loro scarsa serietà nell'essere i primi in cima alle classifiche del buon cibo e cioè della buona agricoltura.
Questa volta, ad essere sotto accusa è stato il comparto dell'olio di oliva, indicato come uno di quelli in cui malagestione, malaproduzone, malaffare, frodi e inganni al consumatore sarebbero la norma. Una accusa dura, anche perché formulata dal New Yorker: una delle riviste da sempre più seguite e lette negli Usa, maestra di costume e di tendenze e potente strumento di comunicazione commeciale.
Ma la «reazione nazionale» è stata rapida, e non poteva che essere così. Rispondendo all'articolo della testata USA " il cui titolo "Affare scivoloso" dice già molto " Coldiretti, Confagricoltura e Cia hanno chiarito che se ci possono essere aree oscure in un comparto così ampio, ridurre tutto ad una cosca dedita al malaffare è un po' troppo. Insomma, in poche ore si è scatenata una vera e propria difesa, legittima, di un comparto che vale circa 2 miliardi di euro, garantisce 50 milioni di giornate lavorative all'anno, arriva a produrre una media di 850mila tonnellate all'anno di olio di qualità e annovera 38 marchi Ue fra Dop e Igp.
Dietro a tutto ciò, tuttavia, c'è anche un'altra verità. Per l'olio come per altri prodotti agroalimentari italiani, la possibilità di indicare chiaramente " per legge " origini della materia prima e luogo di lavorazione non è uno strumento in più per vendere meglio, ma una necessità di sopravvivenza nel mercato. Solo così, infatti, è possibile distinguere l'olio che millanta la sua italianità da quello che effettivamente arriva da olive maturate nel nostro Paese. Così come si può
discriminare fra conserve italianizzate e quelle veraci, oppure distinguere fra prodotti ottenuti da materie prime magari legittime ma non italiane e spacciate come tali. Eppure in Italia e in Europa si continua a ritardare questo passo. Tanto che proprio il New Yorker, con miope ma efficace superficialità,
ha potuto addirittura arrivare a scrivere che " come ha riportato in una nota la Coldiretti " «il governo sembra così debole nel perseguire alcuni
crimini nel settore da far sospettare complicità» in un business «con profitti comparabili a quelli del traffico di cocaina senza gli stessi rischi».
Sarà stato un oceano di mezzo, invece, a nascondere al redattore americano che solo a luglio sono stati sequstrati 2,3 milioni di chili di olio vergine ed extra vergine di oliva, proveniente da miscele fra oli nazionali ed esteri, al quale un'azienda ha attribuito l'origine italiana. Ma rimane il dato di fondo. L'Italia non dovrebbe farsi cogliere di sorpresa, non dovrebbe essere in ritardo a difendere, anche con etichette chiare e veritiere per tutti i prodotti alimentari, ciò che ha di prezioso.
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