A volte, di fronte al male del mondo, non servono rivoluzioni. Serve una mano che sorregga, un abbraccio che non faccia sentire soli. Una certezza, magari flebile, ma presente e non scontata, che non si è isolati in mezzo al nulla. Daniele Mencarelli ha raccontato in Tutto chiede salvezza (Mondadori) la sua settimana da malato mentale “obbligato”, rinchiuso per decreto in un ospedale psichiatrico. Dove ha incontrato il dolore vero, la sofferenza innocente, cinque uomini come lui feriti nella vita da un male che ha tanti nomi ma resta irriducibile.
E di fronte a questa situazione Mencarelli ha trovato un appiglio, come spiega a sua mamma in una telefonata: «“Me spieghi meglio, per favore? Non me stai a fa’capì niente”. “Ma’, ancora non hai capito? Parlo del solito, qui dentro me faccio male a guarda’, c’è ’na sofferenza che non pensavo esistesse, io rispetto a loro c’ho voi, loro c’hanno solo la malattia”». Daniele ha «voi», la sua famiglia, che non lo abbandona, anche se è stato violento con il padre, ma un figlio non lo si lascia, anche se è affetto da disturbi che gli tolgono la libertà dell’io. Gli altri ricoverati hanno solo la malattia con loro. E questa solidarietà radicale, che richiama il Samaritano del Vangelo che si prende cura e non abbandona il ferito per strada, rende non disperata la vita di Mencarelli, perché le sofferenze portate in due, diceva qualcuno, si dimezzano.
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