L’infermiera Hadley sorride quando parla di morte. Non è sempre stato così.
«Quando ho cominciato ad occuparmi di pazienti in fin di vita, tutti mi dicevano di cambiare lavoro, perché sarebbe stato troppo deprimente. Ma non è vero — spiega —. Dopo sei anni come operatrice sanitaria in una clinica per le cure palliative di New Orleans sono una delle persone più felici che conosco».L’espressione solare di “nurse Hadley”, come è nota online, è visibili su TikTok (@nursehadley) e Instagram (@nurse.hadley), dove Hadley Vlahos parla di malattie terminali e di addii, ma anche di speranza, fede e amore.«A 21 anni ero una madre single che studiava da infermiera perché non sapeva cos’altro fare — racconta la 31enne —. Durante un tirocinio mi hanno affidato un signore anziano con una malattia incurabile, che ho seguito per un mese. Ogni giorno mi teneva al corrente delle notizie che ascoltava alla radio.
Quando ha sentito che la fine era vicina, mi ha ringraziata di avergli dato un momento di serenità ogni giorno. Mi ha talmente sorpresa e riempita di gioia che ho deciso che non avrei mai fatto nient’altro. Perché tutti stiamo morendo e tutti abbiamo bisogno di qualcuno che ci dia un po’ di affetto e di attenzione, ma ce lo nascondiamo».Hadley lo ripete spesso al milione e settecentomila persone che la seguono su Internet, guardando i piccoli sketch che mette in scena da sola, da casa o dalla clinica. Si tratta di video amatoriali dove di volta in volta impersona sé stessa, un medico, un paziente o un familiare per mostrare molto concretamente quello che può succedere nelle settimane che precedono l’ultimo respiro. «Sono rimasta stupita che così tante persone siano interessate alle mie storie — racconta —. Poi mio marito (negli ultimi anni Hadley si è sposata e ha avuto altri due figli, ndr) mi ha detto che probabilmente la gente si identificava nelle vicende che racconto e che li stavo aiutando a far fronte al loro dolore».Nessun argomento è tabù nei filmati dell’infermiera.
Non la paura di essere giudicati perché non si passa abbastanza tempo accanto a un familiare morente (nessuno giudica, assicura). E tanto meno l’invadente linguaggio che circonda i malati terminali e che impone loro di “combattere” a tutti i costi contro la malattia e la morte. Una pressione che a suo dire costringe a inutili ipocrisie e impedisce di cogliere la bellezza della fase finale della vita. «Ho avuto situazioni in cui qualcuno aveva un cancro incurabile per tre anni e dopo il suo decesso la famiglia non sapeva se voleva essere sepolto o cremato. Nessuno aveva mai osato parlare di morte».Hadley non ha paura neanche di discutere delle esperienze che la scienza non può spiegare.Moltissimi pazienti, spiega, che siano religiosi o atei, ricchi o poveri, americani o stranieri, il giorno prima della morte dicono che i loro cari defunti sono venuti a prenderli per portarli a fare un “viaggio”, e questo dà loro una gran pace. La maggior parte, inoltre, nelle ore finali manifesta uno strano aumento di energia. «All’improvviso riescono ad alzarsi e a camminare per la prima volta da settimane e nessuno capisce come sia possibile». Altri si svegliano da uno stato di incoscienza, parlano e riconoscono i loro familiari che la malattia o la demenza aveva trasformato in sconosciuti. «Sono anche convinta che un paziente terminale sia capace di rimandare di qualche ora il momento della morte. Qualcuno aspetta di vedere una persona amata, altri preferiscono essere soli, ed è una scelta.
Quando lo spiego ai familiari li aiuta a non sentirsi in colpa se non erano presenti all’ultimo istante».Da tempo il lavoro di Hadley le ha permesso anche di accettare che ci sono misteri, e non solo fenomeni, che un essere umano non può del tutto capire. Il primo fra tutti è il senso della morte dei bambini. «È la parte più dolorosa del mio mestiere, ma il nostro cappellano mi ha aiutata. Ha detto che hanno portato a termine lo scopo della loro esistenza prima di altri. Mi ha dato serenità». Altre incognite sono positive, come l’apparente contraddizione che pensare alla morte le dia pace. «Un giorno morirò e avrò tutte le risposte, perché so che c’è una “stanza dell’aldilà”, come la chiamano i miei pazienti. Ma per ora non ne ho bisogno, perché la prossimità con la morte mi ha tolto la paura di vivere».