Qoelet, l’autore del libro dell’Ecclesiaste, non aveva la televisione, né seguiva i media online. Rispetto a noi aveva una consapevolezza limitata delle disgrazie del mondo, della miseria e del terrore ingenerati dalla malvagità umana. Ma quel che osserva intorno a sé è sufficiente per fargli esprimere delle considerazioni quasi disperate, dopo aver visto le lacrime degli oppressi: «Allora ho proclamato felici i morti, ormai trapassati, più dei viventi che sono ancora in vita; ma più felice degli uni e degli altri chi ancora non esiste, e non ha visto le azioni malvagie che si fanno sotto il sole» (Qo 4,2-3). Non parla di sé, ma di quelle folle di sventurati scagliate dalla violenza sulle strade del mondo, in cerca di un riparo o di un tozzo di pane.
Cercare di essere felici dimenticando le disgrazie del mondo significa isolarsi in una ricerca narcisistica e, con ogni probabilità, largamente illusoria; significa anche trascurare che quella felicità che la nostra cultura ha elevato a fine di ogni vita non può essere alla portata di tutti – anche se dobbiamo preoccuparci senza posa del loro benessere. La vita degli infelici è allora priva di valore, senza interesse? O dobbiamo riconoscere che la nostra ossessione per la felicità non ha necessariamente messo il dito nel senso profondo dell’esistenza?
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