sabato 21 agosto 2021
L'industria italiana ha conquistato la leadership in Europa nella ripartenza post-pandemia, con una crescita del 20 per cento nei primi sei mesi del 2021. Molto meglio di Germania e Francia, anche considerando la caduta del 2020. Il dato è perfettamente coerente con le notevoli performances registrate dall'export italiano nella prima parte di quest'anno e trova una conferma indiretta nella sostanziale tenuta dell'occupazione: secondo i dati più recenti la temutissima corsa ai licenziamenti, nel settore industriale, non c'è stata.
Mettendo insieme le evidenze, abbiamo di fronte oggi un quadro di forza competitiva del made in Italy che non ha precedenti negli ultimi vent'anni. E che fa davvero ben sperare rispetto all'andamento del nostro Pil: l'Italia potrebbe diventare nel 2021 e nei prossimi anni la "locomotiva d'Europa", anche sfruttando il primato tra i Paesi beneficiari delle risorse del Next Generation EU. Con una sola gigantesca incognita, denunciata nei giorni scorsi dal presidente di Confindustria Carlo Bonomi: se prevarranno nei partiti e nei sindacati tattiche irresponsabili, favorite rispettivamente dal semestre bianco del Presidente della Repubblica e dall'atteggiamento pilatesco sul rapporto tra lavoro e salute, questa straordinaria chance andrà perduta.
La notizia della leadership industriale italiana ha sorpreso molti, perché smentisce la narrazione dominante fondata sulla debolezza dell'industria in Italia. A più riprese, negli ultimi vent'anni, ne è stata profetizzata la fine: in quanto indebolita dall'avvento dell'euro e dal venir meno delle svalutazioni competitive, oppure colta di sorpresa dalla prima ondata della globalizzazione e colonizzata da multinazionali e campioni nazionali esteri, o perfino svuotata dall'avidità e dalla miopia delle famiglie imprenditoriali italiane (dominate da "prenditori", secondo un celebre leader politico). Ma ciò che più colpisce, e preoccupa, è il silenzio della politica italiana. Non ci si poteva attendere certo fanfare e caroselli, che sarebbero del tutto fuori luogo, ma la chiara presa di coscienza del ruolo trainante dell'industria tricolore nella ripartenza economica e sociale del nostro Paese. Un ritrovato "patriottismo economico", nella meravigliosa estate del patriottismo calcistico e sportivo. Ma niente di tutto questo - almeno finora - ci è stato dato. Complice il Ferragosto e l'emergenza internazionale in atto, il silenzio della politica sul tema è stato assordante. E non casuale: negli ultimi anni si sono dissolti i centri di analisi e costruzione del pensiero economico interni o contigui ai partiti, nei cui ranghi scarseggiano oggi competenze e sensibilità di politica economica, senza che siano stati sostituiti da canali di collegamento ampi, continui e visibili tra politica e accademia.
È come se la politica nazionale avesse (più o meno consapevolmente) rinunciato ad occuparsi del primo patrimonio del Paese: la sua straordinaria industria manifatturiera, un mix unico di capacità produttiva e innovazione, qualità e stile che si articola in quattro milioni di comunità in cui operano imprenditori, manager e lavoratori considerati in media più bravi dei loro colleghi in giro per il mondo. Ma per quanto tempo ancora, in Italia, sarà accettabile che la politica (salvo lodevoli eccezioni) derubrichi tutto questo a fenomeno "privato", a puro business, di cui è meglio occuparsi il meno possibile?
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