giovedì 5 gennaio 2023
Una mattina ancora d’inverno. Squilla il cellulare, chiamano dalla casa di uno zio che ha cresciuto i nostri figli. Sta morendo. Vado, ma è già tardi. Carlo aveva 86 anni. Fino a due anni fa ancora camminava di buon passo per Milano, fiero. Poi, di colpo l’età gli era piombata addosso. Fortunato, in fondo: è morto nel suo letto, con un figlio accanto, e una badante che già ha messo lenzuola pulite, e ravviato il defunto. La morte nella vecchia stanza da letto matrimoniale si mostra in una versione beneducata. Eppure, guardo con stranita meraviglia lo zio Carlo, quel pallore ceruleo che solo la morte dà, e le mani rigide intrecciate sul rosario. Non è lui, mi dico, incredula eppure certa, non è più lui, quello che andava a prendere all’asilo e a scuola i bambini, e poi a casa, dopo i compiti, gli insegnava a giocare a scopa. (Qualcosa, nella morte, alza fra “loro” e noi come una impenetrabile barriera). D’istinto chino la testa: ciò che rimane qui è solo un’apparenza svuotata. La morte, somiglia ai miei occhi a una rapina. Accarezzo la mano che mille volte ha preso per mano i miei figli bambini: è fredda. È quel freddo che ci rende consapevoli della morte, nei sensi prima che nella ragione. E se sfiorassi il petto dello zio sentirei, lo so, dentro, solo un lago immobile. Una mattina come le altre, umida, sgualcita da una pioggia fine. Ma, più tardi, di nuovo il cellulare squilla. Un messaggio, anzi soltanto un video, senza una parola. Su uno schermo di pc nero c’è una macchia luminosa, qualcosa di veramente molto piccolo e raggomitolato su sé stesso, quasi avesse un po’ di paura. Le mani, i tratti sono appena accennati. È l’audio però, del video mandato da un figlio, che mi fa sussultare. Perché già dal buio del ventre materno risuona, forte, il battere di un cuore. Tumpf, tumpf: minuscolo, ma quanto già prepotente e regolare. E io, che ho appena visto com’ è un uomo quando muore, resto ammutolita dalla coincidenza. Così alla fine cede un cuore stanco, così al primo inizio marcia, baldanzoso. Quel corpo bianco e immoto è carne, soggetta alle leggi della materia. Non è scandaloso vedere come all’apparenza quelli che amiamo, nella morte, sembrino solo care, ma inanimate cose? (Quasi che malignamente ci venisse sussurrato: siete un nulla). E ancora me ne stavo oppressa dentro a questa ombra quando mi è arrivato quel video con la piccola macchia chiara. A misurarla, pochi millimetri. Una macchia insignificante. Ma che schiaffo, l’urto netto e vivace del suo cuore. Già vive, il figlio che cresce nel buio. Mentre anche l’uomo più potente del mondo, dato l’ultimo respiro, è solo il suo peso, un povero resto, ossa da tumulare in un augusto cimitero. In attesa, certo, della risurrezione. Per quelli, non molti ormai, che ne sono certi. Tutto sta in quel soffio che ci suscita, o ci abbandona. Da dove quel fiato, e verso dove? Come può, ciò che è, finire nel nulla? La fine e il principio della vita per un caso sotto ai miei occhi, nello stesso giorno. Ci arrabattiamo, noi, in mille dispute e questioni, ma in verità siamo tutti sospesi su una domanda che dà le vertigini. Parliamo, sempre, d’altro: che farà l’Inter, dove andiamo in vacanza, quante tasse paghiamo, o anche di questioni colte e gravi, e importanti. Ma, sempre, d’altro. Eludiamo l’abisso su cui stiamo sospesi: quella fiamma che accende un cuore o si spegne, lasciando in apparenza solo cenere. Lasciandoci attoniti in quel pensiero bugiardo: “Siete un niente”. Se subito con fede e rabbia non reagiamo: noi, membra di Cristo, non moriamo per sempre. © riproduzione riservata
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