Non proprio un coro unanime, ma quasi. Leonardo Del Vecchio, il giorno dopo la morte (28/6), mette d'accordo quotidiani d'ogni tinta, compresi i commentatori più severi. Già i titoli indicano le sue qualità vincenti: immaginazione, speranza, visione. Sguardo fisso proiettato verso il futuro. «L'imprenditore che vedeva più avanti di tutti» (“Repubblica”). «Dall'orfanotrofio alla Borsa, gli occhiali per vedere lontano» (“Giornale”). «Simbolo di un'Italia che sapeva sognare» (“Stampa”). L'esatto opposto del “vincente” del turbocapitalismo, l'imprenditore solitario che non guarda in faccia a nessuno, cinico e spietato. Scrive Ferruccio De Bortoli (“Corriere”): «Nulla è proibito a chi mette tutto se stesso nell'impresa. A patto che comprenda che il proprio successo è frutto anche del lavoro degli altri», e quindi sia capace di riconoscenza. Non a caso sulla “Repubblica” Furio Colombo lo accosta a Olivetti; Dario Di Vico (“Corriere”) sottolinea: «L'uomo che inventò il welfare in azienda»; e Paolo Stefanato scrive quello che i cronisti, accorsi nelle ultime ore ad Agordo, anche i più scafati non possono non constatare: «A Del Vecchio volevano tutti bene, perché lui voleva bene a tutti e lo dimostrava». Sulla “Stampa” Paolo Griseri scrive di «profilo umano di uomo estremamente versatile, dotato di grande carattere, con improvvise sciabolate di umanità in un mondo degli affari che preferisce la freddezza». Poi scivola sulla classica buccia di banana del nordest, definendo Agordo «la terra di De Gasperi e papa Luciani», ma De Gasperi è trentino della Valsugana, Agordo è nel bellunese. Infine c'è chi si smarca: per Marco Palombi (“Fatto”) Del Vecchio lascia «materiale a bizzeffe per quei capolavori di patetismo ed esagerazioni che sono le laudationes funebres dei grandi imprenditori sui media italiani». A muso duro, sempre e comunque.
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