Umberto Saba scompiglia l'abitudine critica di ragionar per triadi: prima, Carducci Pascoli D'Annunzio; poi, Ungaretti Montale Quasimodo. E Saba? Gli spetterebbe una precedenza, almeno, anagrafica, lui essendo del 1883, contro il 1888 di Ungaretti, il 1896 di Montale e il 1901 di Quasimodo. Ma tant'è: inserirlo in una triade comporterebbe l'esclusione di uno degli altri tre e sarebbe imbarazzante scegliere fra due Premi Nobel e un terzo (Ungaretti) che il Nobel l'avrebbe meritato prima di quei due. Non far parte di triadi, tuttavia, non intaccava l'autostima di Saba, che considerava le sue Scorciatoie e raccontini, "il libro più "buono" e più "nuovo" scritto in italiano da alcuni secoli a questa parte". Chissà che cosa avrebbe detto Saba dello studio di Marzia Minutelli L'arca di Saba. I sereni animali che avvicinano a Dio (Olschki, pagine XXIII+328, euro 29,00). Certamente ne sarebbe stato lusingato, anche se lo stile Minutelli è il contrario di quello del poeta. Saba, infatti, prediligeva l'immediatezza e la semplicità (suo l'elogio della rima "fiore" "amore"), mentre Minutelli presenta il suo libro precisando che «l'argomento è stato ingredito in sette capitoli compartiti in due parti». Ingredito? Compartiti? Il verbo ingredire non figura nei dizionari correnti, neppure in quello della Treccani. Bisogna ricorrere al Grande Dizionario della Lingua italiana, di Salvatore Battaglia (21 volumi, 22.700 pagine) per sapere che "ingredire" sta per "addentrarsi, penetrare, avventurarsi". Più usato è l'aggettivo sostantivato "ingrediente", ma non era più chiaro scrivere «L'argomento è svolto in sette capitoli distribuiti in due parti»? Probabilmente, Minutelli, critica e filologa abilitata alla docenza universitaria e insegnante liceale, crede ancora che la formulazione astrusa sia "scientifica". Saba, invece, difendeva perfino il verso «Nella mia giovanezza ho navigato» che faceva arricciare il naso al "giovane critico" Aldo Borlenghi (eravamo nel 1946). Nel merito, il bestiario sabiano è suggestivo e importante e ben nota è la "giovane bianca pollastra" alla quale il poeta paragona la moglie Lina (che è anche "gravida giovenca", "lunga cagna", "pavida coniglia", "rondine che torna in primavera", "provvida formica"), in uno slancio d'amore che fa ritrovare Lina "in tutte/ le femmine di tutti/i sereni animali/ che avvicinano a Dio;/e in nessun'altra donna". Altrettanto ben nota è la "capra dal viso semita" (Saba era ebreo per parte materna) nel belato della quale il poeta "sentiva querelarsi ogni altro male, ogni altra vita". Il merito di Minutelli è di sottolineare che Saba non cercò mai di antropologizzare gli animali, rispettando la loro specificità senza giungere a balordi panteismi. L'autrice esplora in lungo e in largo il bestiario sabiano (cani compresi), e rimpiange che nell'edizione definitiva il poeta abbia espunto la poesia Il maiale (a mio avviso ha fatto bene). Ma è pur sempre alla "pollastra" e alla "capra" che si finisce per ripartire e ritornare; giustamente, dunque, a capra e pollastra sono dedicati due privilegiati capitoli del libro, ricco di un apparato di annotazioni a pie' di pagina, che simpaticamente l'autrice definisce «poderoso, forse tanto da riuscire irritante».
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