Nella tarda primavera del 1999, fece parecchio rumore un'affermazione del cardinale Joseph Ratzinger, all'epoca prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. In un'intervista al mensile “30 giorni”, a proposito delle nomine episcopali ebbe a dire: «Soprattutto nella Chiesa non dovrebbe esistere alcun senso di carrierismo. Essere vescovo non deve essere considerato una carriera con diversi gradini, da una sede all'altra, ma un servizio molto umile. (…) Anche una sede umile, con pochi fedeli, è un servizio importante nella Chiesa di Dio. Certo, ci possono essere casi eccezionali: una grandissima sede in cui è necessario avere esperienza del ministero episcopale, in questo caso può darsi... Ma non dovrebbe essere una prassi normale; solo in casi eccezionalissimi. Rimane valida questa visione del rapporto vescovo-diocesi come un matrimonio che implica una fedeltà. Anche il popolo cristiano pensa così: se un vescovo viene nominato in una diocesi, giustamente si vede questo come una promessa di fedeltà. Purtroppo anche io non sono rimasto fedele essendo stato convocato qui... (nella Curia romana, ndr)».
Le parole di Ratzinger prendevano spunto da un auspicio formulato poche settimane prima dal decano del Sacro Collegio cardinalizio, Bernardin Gantin, secondo il quale sarebbe stato salutare un ritorno alla prassi antica che proibiva il trasferimento di un vescovo da una diocesi all'altra. Divenuto nel 2005 papa Benedetto XVI, Ratzinger iniziò ad applicare gradualmente questo principio; e i trasferimenti iniziarono a calare, anche se forse non da subito nella misura che il Papa avrebbe voluto (ma c'è da dire che affrontare di petto la questione degli abusi sui minori nella Chiesa, che in un brevissimo arco di tempo portò alle dimissioni di oltre 100 vescovi colpevoli di aver coperto o comunque non contrastato quel tragico fenomeno con la necessaria forza, rese anche la questione dei non-trasferimenti un po' più complicata del previsto). Su quella scia ormai comunque tracciata, papa Francesco si è inserito con decisione tanto da potersi dire che oggi i trasferimenti sono diventati l'eccezione piuttosto che la regola. Un modo per rimuovere non solo la tentazione, ma anche l'immagine, o l'occasione, di un carrierismo subdolamente sempre in agguato, e ritrovare «l'amore, la freschezza e l'entusiasmo di un tempo» che «forse a volte anche noi abbiamo abbandonato», come il Papa ha di nuovo sottolineato, aprendo l'ultima Assemblea generale dei vescovi italiani.
All'interno di questa stessa logica Francesco ha fatto tuttavia un'ulteriore passo in avanti. Un passo di cui il concistoro che si terrà la settimana prossima, durante il quale per la prima volta un vescovo ausiliare sarà elevato alla dignità cardinalizia, segnerà un esempio inequivocabile. Con papa Bergoglio, infatti, si può dire che anche i concetti consolidati di sede cardinalizia e di posizione cardinalizia, siano ormai da archiviare. Se infatti fino a pochi anni fa il passare da una diocesi all'altra, fino a raggiungere la guida di una di quelle per tradizione «sede» per un cardinale, oppure l'essere nominati alla guida di un dicastero vaticano, faceva scattare un automatismo che poteva prestarsi a essere interpretato come una «scalata» alla porpora, adesso questo non è più possibile. Ogni vescovo può diventare cardinale, come Francesco ci ha mostrato in questi anni, a prescindere dalla Diocesi di cui è alla guida o dell'incarico a cui è chiamato a ricoprire. Un antidoto al carrierismo. E il ritorno al significato originale della porpora: un colore che non rappresenta un vertice di posizione ma un vertice di vocazione. Servire, in stretta connessione con il Papa, Fino all'effusione del sangue. Soltanto questo, e nient'altro. Perché la Chiesa è missione, e non chiede nulla in cambio.