Se dico Natale, senza volere (ma lo voglio, per questo ne parlo oggi) la memoria mi torna indietro di più di settant'anni. Era cominciata la guerra, per frequentare le medie avevo dovuto lasciare il paese, dove vivevo con la mia famiglia, per una piccola città nella quale stentavo ad ambientarmi. E il Natale — che col sentore dei primi mandarini si avvicinava, promettendomi il ritorno — era la meta d'ogni mio pensiero. Dopo i compiti finivo sempre per sostare davanti alle vetrine già illuminate d'una cartoleria, che esponevano delle statuine del presepio: nel grato e laborioso rito-supplizio del desiderio. Condiviso dal secondo anno con un mio fratello che aveva iniziato a sua volta la scuola media. Imbruniva e a quell'ora giungevano gli aromi del caffè tostato dalla torrefazione. Noi contavamo i risparmi del borsellino comune: frutto di rinunce al cinema domenicale, a qualche manciata di castagne secche. E pensavamo a quali regali potevamo far portare da Gesù Bambino al nostro fratellino piccolo - assai più piccolo di noi. Un Pinocchio di legno, tre lire, un tamburo di latta, tre lire… lui poi ripeteva, ignaro complice della dissacrazione. Sarebbe morto a ventisei anni. Anche l'altro mio fratello è morto, faticosamente. E quello è stato il Natale più povero e più vero della mia vita.
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