Ero piccolo. La sera, dopo cena, le donne si sedevano sulle sedie di paglia, al portone che versava il cortile nella strada. Recitavano il rosario. Sarà stato, credo, il mese di maggio. Di scatto una di loro si alza e grida con disperazione. Non riesco a spiegarmi cosa accada, se non qualche attimo dopo. Un topo le è salito sotto il vestito, fino alla schiena. Ora è scappato ma io non lo dimenticherò più. Il mio amico Angelo invece, vivendo in campagna, una notte, dormendo sente qualcosa sul petto, accende la luce di scatto e fa fuggire una pantegana lunga tre spanne di bambino. Anche a lui, la sua storia gli è rimasta indelebile. Sui topi, potrei forse scrivere un trattato ma mi rendo conto che l'argomento non è particolarmente salottiero. Avevo circa dieci anni, quando, in assenza dei miei genitori e di mio fratello maggiore, legittimo proprietario, gli sottraevo la carabina ad aria compressa e una manciata di piombini, che nascondevo in tasca. Ero un discreto tiratore e, giù al fiume, da una decina di metri, sparavo ai topi. Quasi sempre li colpivo e i moribondi si lanciavano nell'acqua per annegarci. Non è una bella storia. Sono dunque stato un bambino crudele, che colpiva i più repellenti e contagiosi animali. Certo non lo rifarei ma è stato così. Perdonatemi, fratelli topi.
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