giovedì 27 dicembre 2018
L'ho conosciuto una notte di Natale, la prima volta che mio marito e io siamo usciti insieme. Gli ho scritto, negli anni, cento lettere: lettere da cristiana ignorante, lettere di domande, lettere di rabbia. Lui, con la sua faccia da montanaro della Valtellina, mi apriva sempre la porta. Era duro, spesso, con quella che riteneva una ragazza viziata. Le sue parole, i libri che mi ha fatto leggere, mi hanno educata. Un secondo padre. Oggi don Fabio è malato. Il male gli mina il corpo, ma la lucidità resta piena. Parla con fatica. Sono andata a trovarlo e, franca come sempre sono stata con lui, gli ho chiesto come fa a sopportare una simile malattia. «Il seme deve marcire, per rinascere», mi ha risposto semplicemente.
Gli ho domandato come si affronta un dolore che ti supera. «Offrilo. Bisogna sempre offrire a Dio il proprio dolore». Io, una volta, non capivo. Ma offrire il dolore a Dio dà uno sbocco, una foce, a una massa che altrimenti è cieca. (E forse, da qualche parte del mondo, uno sconosciuto da quel dolore offerto trae un attimo di sollievo).
Quell'uomo un tempo alto e imponente, ora piegato, spezzato e bisognoso costantemente di aiuto, è per me un poderoso testimone. Un generale, e io un povero fante. Nell'asprezza della malattia, lui così sovranamente certo di un Dio buono.
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