C'è una mano bianca dietro quei due pugni sul podio guantati di nero, la protesta sollevata in alto nella notte più calda del Sessantotto dell'atletica. L'immagine più celebre dell'Olimpiade di Città del Messico e, forse, di tutta la storia dei Giochi. Una foto che ha mostrato al mondo la faccia scura dello sport: 17 ottobre 1968, tre uomini al traguardo dei 200 metri e del destino. Uno è bianco, non conta. Forse. Perché la storia stringe sempre l'obiettivo della mente, l'occhio vede solo quello che non vuol dimenticare. «Senza di me, lo avrebbero fatto comunque. Non così però, non con quel gesto così profondo...», dice Peter Norman, bianco, australiano, secondo al traguardo. Smith e Carlos, neri, americani, primo e terzo: vogliono mostrare il pugno alzato mentre suona l'inno, ma Carlos ha lasciato i suoi guanti al Villaggio. È Norman a suggerire loro di indossarne uno a testa. Poi si fa dare una coccarda con la scritta contro la segregazione razziale. Non è la sua battaglia, ma se la appunta lo stesso al petto. Smith e Carlos pagano la loro scelta: la federazione Usa li squalifica a vita, e una parte dell'America non li ha mai perdonati. Lui invece, il terzo uomo, paga la sua solidarietà: osteggiato dalla federazione australiana, la sua carriera in pratica finisce quella sera. Ha vissuto nell'anonimato, distrutto dalla depressione e dalla bottiglia. È morto solo. Ma John Carlos e Tommy Smith il 6 ottobre 2006 hanno voluto esserci. E portare in spalla la sua bara di legno scuro. L'unico modo che avevano per dire grazie per l'ultima volta a Peter Norman. Il primo a sinistra in una foto.
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