Èun fenomeno che mi impressiona, ma che non ho né l'esperienza né gli strumenti per capire: è il terrore epidemico che sta investendo le nuove generazioni, il terrore di non esserci, di non essere presenti e visibili e benvoluti in Rete. Personalmente non pratico i social, non so niente di quello che di me si dice in Rete, non rispondo se non a chi mi critica sulla carta stampata. Sono assente, non ci sono e la cosa non mi dispera, non mi deprime e neppure mi preoccupa. La Rete mi trasmette piuttosto un immediato senso di tangibile (o meglio non tangibile!) irrealtà. Essere lì è per me come diventare un fantasma, una sagoma vuota, un bersaglio qualunque a disposizione di chiunque. La Rete è diventata il luogo-nonluogo in cui succede sempre più spesso che anche i colti e gli intelligenti smettano di esserlo e parlino a vuoto, inconsultamente, per esibizionismo e smania di presenza. Ogni giorno c'è una folla di individui social-solitari che reagisce, reagisce sempre, anche senza aver capito né aver letto, trascurando di leggere e capire pur di parlare o sproloquiare. Ma se il problema è essere o non essere bene o male accolti in Rete, se lo è fino a provocare nei giovani il suicidio, allora il caso è più moralmente e filosoficamente grave della semplice vanità. È vero che anche una radicale stupidità può spesso provocare eventi e atti tragici. L'assassinio è anzitutto un atto ottuso, cieco, mentalmente offuscato. Ma il suicidio degli adolescenti, di cui parla il lungo esauriente articolo di Cristina Taglietti che ha aperto l'ultimo numero della “Lettura”, richiede una riflessione ulteriore. Si apprende sgomenti che il suicidio «secondo i dati dell'Organizzazione mondiale della sanità è la seconda causa di morte tra i quindici e i diciannove anni». Notizia sorprendente, anche se non del tutto. Adolescenza e giovinezza sono i periodi della vita in cui si soppesa e si saggia se stessi, alle soglie della vita da vivere e nel confronto con l'ambiente sociale. Proprio all'inizio della modernità, nella seconda metà del Settecento, Goethe pubblicò l'epocale bestseller I dolori del giovane Werther, storia di un ventenne suicida (imitato più tardi dallo Jacopo Ortis di Foscolo). Oggi non siamo da tempo in epoca romantica, eppure il suicidio giovanile, sempre in un certo senso romantico, sembra che sia aumentato di circa il trecento per cento rispetto agli anni Sessanta. Allora, invece di autoannientarsi, i giovani si impegnarono politicamente, con l'idea di “cambiare tutto”. Ma forse il giudizio giovanile sulla società resta lo stesso. Sono soprattutto i giovani a chiedersi, guardando il mondo in cui vivere, se accettarlo e viverci sembra loro possibile e in nome di che cosa.
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