domenica 24 maggio 2020
Una mia carissima amica, incredibilmente colta, in grado di sostenere conversazioni che spaziano dalla fisica quantistica all'antropologia strutturale, dall'epistemologia alle nuove politiche del lavoro, ha ricevuto da me un regalo che l'ha profondamente turbata. Una copia dei Vangeli. Ne ricordo lo sguardo straniato poi aperto in un sorriso, come a dire “Ti ho capito, volevi farmi uno scherzo!” Ma io non volevo per nulla scherzare. Mi sono seduto al suo fianco e abbiamo iniziato una breve discussione. Le ho chiesto: “Ma tu li hai mai letti?” La risposta è stata “Ovvio che no!” “Perché?” “Perché da una parte non mi interessano, mentre dall'altra li conosciamo già tutti senza doverli leggere!” Era la seconda parte di quest'ultima risposta quella che più mi attendevo. I Vangeli (e la Bibbia) sono spesso considerati, dai laici “militanti”, come uno scontato substrato da cui hanno preso piede le sorti dell'umanità matura, da noi collocabile, probabilmente, nel secolo XVII con l'ammissione di una sorta di “incubatrice” della civiltà nostra un paio di secoli prima. Come un rozzo, ipotetico piedistallo, un passato dato sempre per tale sorregge il tempo moderno, non importa quanto catastrofico si sia rivelato e si riveli. Ma come rendersi conto che il tempo della degenerazione, sposato con quello del progresso, privato delle sue fondamenta, non è più realmente tempo?
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