«Ciao, oscurità, vecchia amica, sono qui per parlarti di nuovo perché una visione, arrivando dolcemente, ha lasciato i suoi semi mentre dormivo e la visione che si è fissata nella mia mente rimane ancora, dentro il suono del silenzio". Così comincia The Sound of Silence, la canzone che Paul Simon scrive nel 1964 e porta alla celebrità insieme ad Art Garfunkel. Sì, il silenzio non è assenza di suoni ma è suono esso stesso, forse un suono inafferrabile: com'è possibile annullare ogni rumore, fosse pure il più remoto fruscio? Ci provò il compositore John Cage nel 1952 mettendo in scena 4'33", brano per "qualsiasi strumento": gli orchestrali salgono sul palco, non suonano per quattro minuti e trentatré secondi e se ne vanno. Silenzio? Non proprio. La composizione consisteva nei rumori di fondo prodotti dal pubblico, dalla scena, dal ronzio di un insetto, da un colpo di tosse. Il pubblico, pare, non apprezzò la cosa.
Paul Simon, all'inizio, sembra ringraziare il silenzio che rende possibile la magia del sogno raccontato nei versi successivi. John Cage dà la caccia al silenzio perfetto senza trovarlo. Lo cerca nella camera anecoica dell'Università di Harvard: il silenzio perfetto tanto agognato. Eppure anche lì percepisce due rumori, uno acuto e uno grave. Gli spiegheranno che aveva ascoltato il proprio apparato cardiocircolatorio e nervoso, un vero privilegio reso possibile da quel silenzio quasi assoluto. Ma non assoluto. Il silenzio totale non esiste.
Noi non siamo tanto ingordi. Ci basta conquistare spazi di (imperfetto) silenzio in un mondo che cerca disperatamente di riempire ogni vuoto colmandolo di parole e rumori. E questo potrebbe essere un elemento non secondario della nostra lontananza da Dio o, per i non credenti, da un qualche assoluto. Annota José Tolentino Mendonça: «Quando penso al contributo che l'esperienza religiosa potrà dare in un prossimo futuro all'umanità, penso francamente che, più che la parola, sarà la condivisione di quel patrimonio immenso che è il silenzio». In effetti, la stessa vicenda di Babele potrebbe insegnarci che neppure la parola più raffinata e potente può raggiungere il Cielo, né abbracciare e farci comprendere tutto ciò che sta sulla Terra.
Ma come si può stare in silenzio? Le parole affollano senza sosta la nostra mente. Da ragazzi, quando siamo invitati a meditare in silenzio, ci viene proposta una contraddizione: per meditare cerchiamo nella mente le parole più belle, profonde e vere; domande in cerca di risposta; espressioni di lode e ringraziamento; ma pur sempre parole, mentre il silenzio dovrebbe essere la loro assenza. «Siamo analfabeti del silenzio», annota Mendonça, mentre da un'altra epoca e da un'altra esperienza di fede gli fa eco il cabalista ebreo Eléazar Rokéah di Worms: «Dio è silenzio», o almeno è fragile e tenue sussurro, non tuono né fulmine né terremoto, cosa che andrebbe sottoposta alla meditazione di certi predicatori, dei pulpiti e dell'etere.
Le parole... Le parole sono forza ma anche schiavitù. Sarebbe bello potercene liberare, talvolta, e raggiungere l'apofasia, l'assenza di voce. Al contrario delle parole che si articolano in sapienti architetture, l'apofasia non è speculativa, non comunica nozioni, non si ripete. È il silenzio che parla.
Ma anche il silenzio può essere ambivalente e da chance tramutarsi in limite. Paul Simon canta, alla fine, di «persone che parlavano senza dire nulla, persone che ascoltavano senza capire, e nessuno osava disturbare il suono del silenzio». Quel silenzio irraggiungibile come lo zero assoluto, meno 273 gradi, 273 come i secondi di 4'33" di John Cage. Un silenzio afferrabile solo dentro un sogno.
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