Fuori dal Comune... nonostante tutto, c'è ancora parecchia gente che vuole entrarci. Il prossimo 11 giugno oltre 1.000 Comuni (su 8.000 totali dello Stivale) andranno ad elezioni amministrative ed è consolante che ancora si trovino decine di migliaia di persone disposte a mettere il proprio nome in lista per un posto nei rispettivi consigli comunali, pur nella situazione di estremo discredito di cui gode (ma gode?) la politica nel nostro Paese.
Si tratta di un bel segno, che mi guardo bene dallo smentire; confermo, anzi, che metter mano al bene comune è sempre lodevole intento. Dissento però da Nicole, che avendo 7 anni nelle liste non può ancora entrarci e tuttavia ha scritto al primo cittadino della sua città (Bari) una letterina tosto ripresa con lode dai giornali: «Caro sindaco, da grande vorrei fare il tuo mestiere: mi dici che scuola devo frequentare?». Persino l'illustre collega Massimo Gramellini l'ha commentata, scrivendo che – se oggi «il pensiero dominante suggerisce che la politica è diventata il quarto d'ora del dilettante: tutti possono farla» – in realtà, «la politica non è solo una missione, ma un mestiere. E, come tale, richiede conoscenze che si imparano con lo studio e la pratica».
Beh, cara Nicole e caro Massimo, non sono del tutto d'accordo. Non sono infatti convinto che la politica sia (o debba essere) un mestiere, almeno a livello di amministrazioni locali, e che dunque si debba studiare in appositi corsi "da sindaco". Quello che voi auspicate è solo una parte del giusto, vorrei però ricordare anche il lato sgradevole dell'assioma: se infatti uno la politica la fa "per mestiere", è inevitabile che debba ricavarci da vivere; e se deve viverci – possibilmente per 30 o 40 anni –, è del pari inevitabile che debba farsi rieleggere più o meno "per forza"; e se deve essere obbligatoriamente confermato, è infine inevitabile che... la democrazia, il ricambio, gli ideali e compagnia bella debbano essere subordinati alla sua primaria necessità di guadagnarsi il pane con – appunto – un mestiere.
Ognun vede dunque il rischio di tale situazione: se pretendiamo dei "tecnici" competenti a capo dei nostri enti pubblici, dobbiamo essere disposti ad offrire quello che correttamente loro compete (paga, contributi, buonuscite, una certa continuità, eccetera), così come avviene nel mitico "settore privato"; altrimenti dobbiamo accontentarci di coloro che Gramellini chiama «dilettanti».
Non si può insomma avere il sindaco "scienziato" e pure gratis: a meno di casi del tutto particolari (oppure di situazioni truffaldine fin dalle premesse); invece è quello che in Italia assurdamente si pretende. D'altra parte far diventare la politica – e qui si allude a ogni livello, anche ai più alti – "un mestiere", significherebbe pensare in modo radicalmente diverso tutta la democrazia: perché infatti "eleggere" dei "rappresentanti"? Meglio fare concorsi pubblici per scegliere su base paritaria "i più competenti"...
Per questo, cara Nicole e caro Massimo, tirate le somme, tra i due rischi preferisco restare coi politici "dilettanti". E vi dico perché: perché le persone intelligenti le competenze possono anche acquisirle; perché i "tecnici" nella struttura della Pubblica amministrazione ci sono (o ci dovrebbero essere) già; perché non è detto che il volontariato sia meno efficace; perché vorrei proteggere la democrazia di popolo dai mestieranti inamovibili; perché credo che il compito vero di un politico sia rappresentare e non tanto trovare soluzioni; perché infine un sindaco che guadagna meno di quel che merita (parlo sempre di persone oneste: per gli altri dev'esserci la magistratura) o lo fa per passione vera, oppure dopo un po' smette di farlo: e questo è già garanzia di un'azione disinteressata.
Perciò, Nicole, studia pure da maestra o da parrucchiera, però non abbandonare l'idea di fare la sindaca; se avrai un altro mestiere, ti sarà anche più facile essere distaccata dal "potere" – e dunque più onesta.
r.beretta@avvenire.it
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