mercoledì 10 gennaio 2024
Il signor D.B. abitava vicino a noi. Due stabili costruiti da una cooperativa di giornalisti, nella Milano del dopoguerra. Ci si conosceva tutti. Ma quel signore magro, elegante in un cappotto scuro, era un po’ strano. Non aveva bambini, non faceva la spesa, era sempre solo. Il “Corriere” sottobraccio, un saluto educato ai vicini. Quando incontrava mio padre però si fermava – lavoravano nella stessa stanza. Bambina, li sentivo parlare di politica, di Vietnam. Ma io guardavo in su, alla faccia dello sconosciuto. Magra, pallida, come segnata da una costante ma silenziosa sofferenza. Indimenticabili i suoi occhi: nerissimi, stretti pozzi senza fondo in cui temevo di cadere. Il signor D.B., sentendosi osservato, abbassava gli occhi verso di me e mi guardava, gentile. Io allora distoglievo in fretta i miei occhi. Più tardi seppi che era un giornalista, e un famoso scrittore. Mia madre ne amava i libri, li aveva sul comodino, e verso i tredici anni cominciai ad aprirli anche io. Racconti straordinari. Il mondo reale trasfigurava in oscuri incubi notturni – o in verità non erano la realtà, quella vera? Li lessi voracemente, tutti. Quegli occhi. Mi pareva che D.B. fosse diverso, ma in che modo? Come gli scorresse dentro il fiume carsico di una dolorosa estraneità, cui non poteva sottrarsi. Lui però, quando chinava lo sguardo su di me, piccola, sorrideva. © riproduzione riservata
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