Philippe Petit, funambolo, ha attraversato su un filo la distanza tra le guglie di Notre-Dame a Parigi, tra le Torri gemelle del World Trade Center a New York (oggi ridotte a fasci di luce nel vuoto), tra picchi alpini e sponde di cascate. Nel Trattato di funambolismo, dove racconta la sua arte «sottile ed effimera come l'arte del vivere», riserva un capitolo al Saluto. Il saluto del torero, dice, è una dedica. Quello dell'aeronauta, un addio. Il saluto del funambolo è una dichiarazione. C'è il saluto in piedi, in ginocchio e seduto. Il saluto in ginocchio è quello vero e perfetto. «Una parte del peso del corpo deve riposare sul collo del piede e la pianta del piede deve trovarsi totalmente a contatto con il cavo, e non solo la punta, incurvata, come si osserva spesso, posizione sgraziata a vedersi». Il saluto si fa all'ingresso sul filo, ma anche a conclusione dello spettacolo. «Ditemi: dove trovare maestà più grave di quando il funambolo, con un inchino ammirevole, si congeda dal filo?». Ogni volta che mette piede sul cavo, Petit, salutando, è come se gettasse il suo pugno in faccia ai venti. «Ma al culmine del gesto il pugno si apre, la mano raccoglie la risposta, il funambolo la legge in ginocchio». E la vita, stretta in un pugno e poi offerta, si trasmette, a chi lo guarda a naso in su, nella sua esilarante immediatezza.
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