Il segreto della vittoria in quei pali dipinti di nero alla base
mercoledì 12 luglio 2017
David Forrest, giornalista del Guardian e archeologo dello sport, si è messo sulle tracce di questa storia, ossessionato da una domanda: perché, nei Mondiali di calcio in Argentina del 1978, i pali delle porte dello stadio Monumental di Buenos Aires erano dipinti, alla base, con una banda nera? Si può immaginare che quel fatto possa lasciare indifferente il resto dell'umanità, ma l'idea che qualcuno sia stato capace di aspettare quarant'anni per mettere a fuoco un dettaglio così piccolo della storia del calcio, è affascinante.
Poche settimane fa le ricerche del reporter inglese lo portano a entrare nel ristorante "Don Julio", nel quartiere Palermo della capitale argentina, per conoscere un anziano cameriere, Ezequiel Valentini. Qui incomincia il bello della storia, perché Ezequiel gli mostra delle fotografie dove, giovanissimo, compare come uno degli addetti al campo del Monumental e gli racconta che quelle bande nere erano un segno di protesta contro il regime di Videla, metafora di quelle fasce a lutto che i calciatori, in alcune occasioni, portano al braccio. Un segnale, mascherato da scaramanzia, contro quel dittatore sanguinario che a poche centinaia di metri dal Monumental, rinchiudeva migliaia di futuri desaparecidos nella prigione infernale dell'Esma.
Il calcio dimostra, con una certa dose di crudeltà, che la differenza tra vincitori e vinti può nascondersi in pochi centimetri e quel palo dipinto di nero alla base fa venire alla memoria l'ultimo minuto della finale di quel Mundial: Argentina-Olanda. Il cronometro segna il minuto 45:10 del secondo tempo quando, sull'1-1, Krol batte una punizione geniale appena dietro la linea di centrocampo e con un lancio di una quarantina di metri mette la palla sul piede sinistro di Rob Rensenbrink, all'altezza dell'area piccola del portiere avversario, Fillol. La partita è 14 secondi oltre il tempo regolamentare, quando Rensenbrink tocca la palla che supera il portiere e rimbalza una volta a terra, a un metro dalla linea del goal. Bisognerebbe riuscire a fermare il tempo, congelare quell'istante, per poter guardare contemporaneamente una sequenza di volti.
La faccia di Happel, il burbero allenatore dell'Olanda che aveva lasciato a casa Cruyff e si vedeva a un passo dalla vittoria del primo mondiale della storia degli arancioni. La faccia di Gonella, l'arbitro italiano con il fischietto già alla bocca, che stritolato dalle mille pressioni intorno a quella gara, non avrebbe avuto problemi a convalidare un goal perfettamente regolare. La faccia del gordo Muñoz, il telecronista della televisione di Stato, che si sentiva strozzato in gola il discorso preparato per la vittoria dell'Argentina, «Paese meraviglioso». La faccia di Jongbloed, il portiere olandese che, dall'altra parte del campo, aveva già alzato le braccia al cielo sentendosi campione del mondo e la faccia del Flaco Menotti, allenatore argentino, che stava per vedere materializzarsi la sconfitta più feroce che possa esistere: un Mondiale perso in casa e all'ultimo secondo. La faccia del colonnello Jorge Rafel Videla, in tribuna, circondato dai suoi oligarchi, che vedeva svanire nel nulla un lavoro perfetto. La faccia dei leader di Montoneros, l'associazione clandestina che aveva progettato di utilizzare l'eventuale sconfitta dell'Argentina per far esplodere il malcontento popolare e tentare una rivoluzione contro la dittatura. È difficile spiegare il silenzio che calò sull'Argentina fra il momento in cui la palla lasciò il piede sinistro di Rensembrink e quello in cui, alle spalle di Fillol, si sentì un rumore sordo, quello di una palla che colpisce il palo, pochi centimetri sopra a una banda nera. Toccherà al gordo Muñoz, trenta minuti più tardi, di urlare nel suo microfono: «Questo è un Paese meraviglioso! Questo è un Paese meraviglioso!».
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