mercoledì 17 giugno 2020
La poesia è il regno del silenzio che si (rivela), che si concede all'impossibile paradosso del farsi toccare. Il vero silenzio non significa una mera entità negativa, tale da rimanere inespressa, ma un comportamento attivo, una commozione fervida della vita interiore, commozione nella quale tale silenzio diviene padrone di sé stesso. Solo da questa commossa serenità proviene alla parola quella forza silenziosa che la rende compiuta (Romano Guardini). Questo paradosso ha attraversato i millenni come dono divino e preziosissimo e forse, proprio per questo, non caro ai più, solitamente per un'erronea impostazione nell'insegnamento scolastico, dove il componimento poetico viene “vivisezionato” a mo' di corpo inerte, quasi a farne un cadavere per studiare le parti del linguaggio che lo anima(vano). Pure, chi è stato il più grande poeta del Novecento, quel Paul Celan che ha intitolato la sua prima raccolta Papavero e memoria, testimone dell'intestimoniabile catastrofe della Shoah, ha scritto: «Poesia può essere solo una svolta del respiro». Quotidiano, segreto e meraviglioso quasi non-luogo, quasi non-tempo, in cui espirazione e inspirazione si separano, o forse fingono di farlo, e così i nostri destini e in ultimo è la nostra capacità di restare bambini, colmi di stupore, prossimi a quanto dobbiamo diventare, da mantenere ben saldo, «per entrare nel regno dei cieli».
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