“Nuovo” è una parolina o una parolaccia? Dipende, ora l'una ora l'altra. Quando si parla di persone, ad esempio, è parola che genera diffidenza. "Quello nuovo", additando il neoassunto o il capo arrivato da un'altra azienda, è un binomio foriero di oscuri presagi. È nuovo, che ne sa di noi? È nuovo, vorrà subito cambiare qualcosa, forse abitudini costruite in lunghi anni... un poco ammuffite, ammettiamolo, ma abbiamo sempre fatto così. È nuovo, pensa in modo imprevedibile e avanza proposte che sono sue, non nostre: chi si crede di essere? Migliore di noi? Pensa forse di saper pensare, lui nuovo, quello che in tanti anni noi non abbiamo pensato?
La novità può essere foriera di inquietudine, come sempre quando siamo sospinti ad abbandonare la strada conosciuta a memoria, priva di sorprese, per intraprenderne una inedita. Nelle aziende, il nuovo viene visto con sospetto e massacrato a prescindere, per puro pregiudizio scambiato per sapiente prudenza. In non poche parrocchie è la stessa cosa. "Abbiamo sempre fatto così" sembra il manifesto invisibile che campeggia sulla facciata della chiesa. Comunque nulla di nuovo è possibile perché quella formidabile macchina dispensatrice di servizi – catechesi, liturgie, carità, animazione di bambini, ragazzi e giovani, sagre... – che è la parrocchia media italiana spesso non ha il minimo spiraglio libero in cui possano infilarsi le novità, scartate a prescindere in quanto "fatica in più". È con evidente soddisfazione che i vecchi parrocchiani, che conoscono ogni fessura dell'oratorio, replicano: ci abbiamo già provato tanti anni fa (pensavi di essere originale?) ma non è servito a niente. «La gente non viene comunque», concludono, senza essere sfiorati dal dubbio che non sia la gente (nuova) a dover venire in parrocchia, ma la parrocchia a dover andare dalla gente. In quale modo? Ecco, ci vorrebbe un'idea nuova...
Siamo geneticamente conservativi, questa è la verità: perfino se progettiamo una rivoluzione (tutte già fatte e sappiamo come sono andate a finire). In politica le cose sfumano. Finché stiamo bene, abbiamo lavoro e benessere, ordine e salute, siamo conservatori e guai a parlare di novità. Accade poi che le cose comincino ad andar male, anche perché non abbiamo avuto l'intelligenza di introdurre qualche sapiente novità quando tutto andava bene; allora premiamo chi promette la novità – qualunque novità, sensata o (quasi sempre) insensata – perché ha capito che promettendo di spazzar via il vecchiume, pur non avendo la minima idea di come realizzare "il nuovo", il potere sarà suo.
In un solo caso "novità" è sempre e soltanto parolina dolce dolce capace di suscitare consensi, perfino entusiasmi: nel commercio. Il nuovo smartphone, il nuovo Suv, il nuovo orologio, le novità della moda sono attesi spasmodicamente. Il nuovo gratuito ci induce al sospetto, il nuovo che ci svuota il portafoglio è accolto con entusiasmo. La nuova pettinatura è sempre migliore di quella vecchia, la esibiamo con spavalderia mentre il timer ticchetta: presto, anzi prestissimo sarà vecchia e ce ne sarà bisogno di una nuova. Alle nuove tendenze occorre prestar occhio e orecchio e adeguarsi. Questo genere di "novità" ha il difetto, o forse il pregio, di diventar vecchia in fretta. Ha la scadenza come un formaggino.
La morale della puntata è mesta: come molto altro in questi nostri anni sciagurati, il nuovo è tale, bello e positivo se va consumato, non se è generato e prodotto. Questo tipo di "nuovo" esige gregari privi di fantasia e inventiva: docili consumatori che hanno sempre fatto così. (Comunque questo articolo è stato scritto con un pc molto vecchio).
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