Quante volte capita di pensare alla vecchia distinzione tra “retori” e “persuasi”, su cui ricordo la definizione di Michelstaedter e quella di Capitini, leggendo quel che oggi si scrive e si pubblica e si dice e si filma? Tra parentesi, l’inondazione dei libri sull’epidemia e dintorni è già cominciata, e non c’è editore che non ne abbia più d’uno in macchina o in cantiere, non c’è forse scrittore (ma rarissimi i veri scrittori, e dilaganti gli scriventi) che non creda fondamentale per il bene della patria e dell’umanità esternarci le sue riflessioni. E intanto, improvvisamente, in questi due mesi è dilagato il numero dei tutti catastrofisti, tutti hanno capito (ma forse è più giusto dire che sembrano aver capito) l’impasse di una civiltà fondata sullo sviluppo, quel modello che così tanto li ammaliava fino al giorno prima, e si sono (ci siamo) ricordati di essere pezzi mortali della natura anche noi esseri umani, infime particelle di un tutto, noi che abbiamo tranquillamente, entusiasticamente cospirato non a curare e migliorare il “giardino che ci è stato dato in dono” ad aggredirlo, a sfruttarlo senza criterio, che esso è anche “l’aiuola chi fa così feroci”. Questo giardino ci è da sempre amico ma anche nemico, poiché in ogni sua parte domina la “lotta per la vita” e perché la creazione non ha fine e la natura non ha riposo. Questa violenza è tuttavia condizionabile, controllabile, dipende solo da noi. E dai governanti che riusciamo a esprimere, un cui fondamentale compito dovrebbe essere quello di frenare gli avidi distruttori della natura e manipolatori delle coscienze, che un tempo avremmo definito assatanati. Editori e professori adesso si affrettano a dar peso a una letteratura che fino a ieri hanno, con rarissime eccezioni, disprezzato, quello della letteratura, perlopiù di genere ma non solo, che possiamo chiamare catastrofista e che è stata in maggior parte avveniristica, “fantascientifica”. Un esempio ultimissimo è quello della riproposta negli Oscar Mondadori del Tallone di ferro di Jack London, già presente da anni nell’Universale Economica Feltrinelli. Ottima nuova traduzione, ottima introduzione perfettamente accademica e specialistica (e lo dico con sincera ammirazione) ma in tutt’altra logica da quella feltrinelliana, di cui fui io promotore dando vita allora, assieme all’amico accademico Vito Amoroso che proponeva dalla Puglia i racconti Fare un fuoco, a una sorta di revival londoniano su cui l’accademia e la cultura ufficiale tacevano per un disprezzo che possiamo ben dire classista: per la rozzezza dello stile e soprattutto, ovviamente, per le idee anticapitaliste, antiborghesi, rivoluzionarie, sia pure espresse confusamente, discutibilmente. La differenza stava allora in una distinzione oggi scomparsa, quella appunto tra i “persuasi”, con una visione militante della cultura, e i “retori”, per i quali un’ideologia vale l’altra. A questa seconda specie appartengono oggi gli accademici in generale, con eccezioni sempre più rare rispetto al passato. Mentre oggi c’è un enorme bisogno di persuasi, lasciando i retori e i frigidi ai loro agoni accademici o al loro irrefrenabile narcisismo.
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