Quest'anno, complice il Covid, ho saltato due delle quattro (almeno, ma sono state anche cinque o sei) solite visite annuali di controllo che faccio al Centro Nemo del Policlinico Gemelli. Così tra la prima, a maggio, e l'ultima, questo novembre, sono passati sei mesi. Un intervallo lungo come mai prima, e per di più con in mezzo un'estate quasi da incubo, come ho raccontato in questo diario. E così, se l'avvicinarsi della visita di controllo è sempre stato un momento un po' stressante, questa volta lo è stato dieci volte di più, proprio per la consapevolezza di essere peggiorato. Al punto che mi era anche venuto in mente di barare un po', di minimizzare il mio peggioramento, salvo poi dirmi che sarebbe stato inutile: «Tanto se ne accorgono comunque, e finisce che fai pure la figura del fesso», mi dicevo. E infatti. Il peggioramento, oltre che raccontato da me – anzi, da mia moglie –, è stato anche verificato dall'esame obiettivo. La visita in sé è durata poco, il resto del tempo, quasi un'ora, l'abbiamo invece passato a chiacchierare. Non del tempo, ma del mio futuro. Esatto. Da Amelia Conte, neurologa, e Daniela Marchione, psicologa, e più tardi anche dal professor Mario Sabatelli, mi è stato spiegato per filo e per segno cosa mi aspetta, e chiesto a cosa ero disposto a dare il mio assenso o meno. Sapevo che questo momento sarebbe arrivato, e un po' lo temevo, per mille ragioni emotive e non. Pensavo che, nelle mie condizioni, sottoscrivere una Dichiarazione anticipata di trattamento mi avrebbe destabilizzato, ma non è successo. Merito dei miei interlocutori, incredibilmente delicati, di mia moglie, che è una roccia, e un po' credo anche mio, che pure non scherzo. E così intanto ho imparato che non si tratta di una Dat, ma di una Pianificazione condivisa delle cure, che non è una preferenza semantica «ma una distinzione sostanziale – mi ha spiegato Amelia –. Le Dat si applicano a chi sta bene, la Pianificazione invece è un programma condiviso sulle cure tra medico e paziente, quindi quando già c'è la malattia». Ho deciso che entro Natale farò la Peg, la gastrotomia endoscopica per-cutanea, in pratica un buco nello stomaco attraverso cui nutrirmi quando deglutire diventerà troppo difficile, o impossibile. Al momento non ce ne sarebbe bisogno, ma trattandosi di un impianto che prevede un'anestesia, seppur leggera, meglio farla finché le condizioni respiratorie lo consentono senza pericoli. Ho dato l'assenso anche per la tracheostomia, ma non è una cosa così urgente, anche se pure per questo dovrò decidere se farla a freddo, prima che una crisi respiratoria la renda improcrastinabile, o aspettare. Vedremo.
(43-Avvenire.it/rubriche/Slalom)
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