Antonio Debenedetti mi ha raccontato che come scolaro era stato affidato da suo padre alle cure di Giorgio Caproni, maestro di scuola elementare, Caproni gli insegnò un metodo. Dal momento che Antonio, figlio del grande critico Giacomo, in famiglia sentiva tanto parlare di libri belli o brutti, un giorno chiese a Caproni: «Come si fa a capire se un libro è bello?». Caproni ci penso un momento e poi gli rispose: «Tu apri il libro, prendi la prima parola, poi prendi l'ultima. Se stanno bene insieme il libro è bello».
Non ci si crederà, ma il metodo funziona. Ne ho parlato qualche giorno fa con il mio amico Bardo Seeber, maestro anche lui di scuola elementare. Abbiamo fatto qualche prova e i risultati danno abbastanza ragione a Caproni. L'esito negativo si vede subito. Non c'è niente da fare, si prenda una parola o se ne prendano quattro, se il libro è brutto è subito chiaro. I risultati positivi richiedono invece un po' di elasticità. Si tratta di trovare la combinazione migliore, scegliendo una sola parola o più di una. A parte la bellezza o la bruttezza, si sente anche l'atmosfera del libro. Per esempio la prima parola di Moby Dick è «Chiamatemi Ismaele» e l'ultima è «orfano»: «Chiamatemi orfano» dà il senso della solitudine del protagonista dopo la catastrofe. Con Pinocchio, «C'era una volta"un ragazzino per bene!». Con la Divina Commedia, «Nel mezzo"stelle». Con Don Chisciotte, «Lettore mio"Ti saluto». Con Guerra e Pace, «Principe mio"contento». Con l'Ulisse di Joyce, «Solenne"Sì». Effettivamente il capolavoro di Joyce, nella sua complicazione di libro d'avanguardia, è monumentale e solenne, più solenne di altri classici. Ma con i Promessi Sposi il risultato non è buono. Viene fuori «Quel ramo"fatto apposta». Eh sì. Manzoni avrà anche scritto il romanzo più importante della letteratura italiana. Ma sa di
artificiale, voluto, «fatto apposta».
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